Un uomo sui 50 anni. Una milizia controllata dal ministero dell’Interno lo aveva sottoposto a interrogatorio. Nel giugno 2017, quattro giorni dopo il fermo, i familiari erano stati informati della sua morte. Un rapporto visionato dalla Human Rights, Transitional Justice, and Rule of Law Division della missione Unsmil certificava che l’uomo era stato “sottoposto a pestaggi e torture”. Il suo è uno dei 37 corpi portati senza vita negli ospedali di Tripoli lo scorso anno con inequivocabili segni di tortura addosso. E’ la punta di un iceberg gigantesco fotografato nell’ultimo report dell’Office of the United Nations High Commissioner for Human Rights e fatto di “orribili abusi, detenzioni illegali e violazioni dei diritti umani” che avvengono almeno dal 2015 nelle prigioni gestite dalle milizie alleate del governo di unità nazionale patrocinato dall’Occidente e guidato da Fayez Al Sarraj. Cui l’Italia ha affidato il compito di fermare i barconi carichi di migranti diretti verso la Sicilia.
Il ministero dell’Interno è controllato dagli uomini di Al Sarraj. E’ il dicastero cui fa riferimento una delle due “Guardie costiere” di Tripoli che, in base al memorandum firmato da Sarraj e Paolo Gentiloni il 2 febbraio 2017, hanno il compito di fermare in mare i migranti diretti verso l’Italia. “La detenzione di migranti, richiedenti asilo e rifugiati non è l’oggetto di questo report”, si legge, ma dal ministero guidato da febbraio dal generale di brigata Abdul Salam Ashour dipende anche il Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale che gestisce diversi centri di detenzione nei quali viene rinchiuso chi viene fermato nel Mediterraneo, definiti il 14 novembre 2017 dalle Nazioni Unite “un oltraggio alla coscienza dell’umanità“. Allo stesso dicastero fa capo anche il gruppo detto Central Security/Abu Salim, che controlla il sobborgo sud-occidentale della Capitale.
I suoi uomini sono responsabili, secondo l’Onu, di diverse sparizioni forzate e della morte di un uomo trovato senza vita a Tripoli nel luglio 2016, con addosso pesanti segni di percosse, frutto del trattamento subito nelle due settimane trascorse nel centro di detenzione gestito dalla milizia armata, guidata da Abdel Ghani al-Kikli. Che fin dall’aprile 2016 garantisce la sicurezza del Consiglio Presidenziale nella capitale insieme alla Tripoli Revolutionaries Brigade e alla Special Deterrence Force. Quest’ultima dipende sempre dal ministero dell’Interno, il Governo di Accordo Nazionale lo ha pubblicamente elogiato “per la funzione svolta nella lotta al crimine“, e gestisce il carcere di Mitiga. Un inferno in terra, secondo le testimonianze e le prove raccolte dalla United Nations Support Mission in Libya.
La Human Rights Division “è stata in grado di documentare” la morte di un 20enne avvenuta tra le sue mura nel giugno 2016: “Il suo corpo era coperto di cicatrici, aveva gli arti spezzati e presentava diverse ferite da arma da fuoco“. Il ragazzo era uno delle migliaia di ospiti del compound che, secondo i dati forniti dalla Sdf durante l’unica visita concessa, nel 2016 ospitava “1.500 detenuti di sesso maschile e 200 di sesso femminile, compresi i bambini”. Un anno dopo le celle si erano riempite ulteriormente: “In base alle informazioni ricevute da un membro dell’Ufficio del procuratore generale, alla fine di novembre 2017 erano detenute 2.600 persone“.
Che vengono detenute in “condizioni inumane“: “Dal dicembre 2015, la HRD ha documentato nella struttura gravi violazioni dei diritti umani – si legge nel documento – come la detenzione arbitraria, tortura, isolamento prolungato, decessi in custodia ed esecuzioni sommarie“. Tra le vittime preferite dei miliziani in servizio a Mitiga ci sono le donne, che vengono “percosse e frustate”: “In alcuni locali, le detenute sono costrette a spogliarsi e sono sottoposte a ricerche invasive nelle cavità da parte delle guardie o sotto lo sguardo di funzionari di sesso maschile”.