Che fine hanno fatto le persone che erano nell’hotspot di Lampedusa, chiuso a inizio marzo per “condizioni disumane”? La fotografia scattata dal rapporto presentato martedì 10 aprile a Roma, a Montecitorio, da avvocati, ricercatori e mediatori culturali di Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti civili (Cild), Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi) e IndieWatch, racconta di un “prima” e di un “dopo” Lampedusa che non sembra migliorare.
I tanti ospiti presenti fino al mese scorso – “parcheggiati” in attesa di accedere alla procedura di protezione internazionale – sono stati trasferiti nei Centri per il rimpatrio (gli ex Cie voluti dal ministro Marco Minniti) di varie città italiane. La legge prevederebbe tre giorni per l’avvio dell’iter per la protezione internazionale, dieci in caso di “arrivi numerosi”, ma a Lampedusa i tempi arrivavano a superare spesso il mese: il 5 gennaio scorso, qui, si è suicidato un ragazzo che era sbarcato nell’isola il 31 ottobre prima. L’hotspot “dovrebbe essere un punto di semplice identificazione e smistamento delle persone”, spiega il garante nazionale dei diritti dei detenuti, Mauro Palma. “Invece le persone rimangono più a lungo, soprattutto quelle più vulnerabili”.
Un centinaio di persone, dicono le associazioni, sono passate “a un regime di trattenimento, a rischio rimpatrio” nei Cpr di Torino o Brindisi. E di Potenza, dove – denunciano le associazioni – sono poi stati “violati i diritti di difesa dei migranti”. “Presenteremo più di una interrogazione parlamentare”, dice Giuditta Pini del Pd. “Se accogliamo queste persone che scappano – che sia per la guerra o per qualunque altro motivo – deve essere loro garantito il diritto alla difesa”.
Da una parte ci sono i problemi di chi è stato trasferito nei Cpr, dall’altra quelli di chi arriva ora sull’isola siciliana. L’hotspot, la cui capienza era di 381 posti, rimane chiuso. “Ma a Lampedusa ci sono ancora sbarchi organizzati: è la stessa Guardia Costiera a portare lì i migranti. Ultimamente sono arrivate un centinaio di persone”, spiega a ilfattoquotidiano.it l’avvocata Giulia Crescini dell’Asgi. “Destinate a una struttura in condizioni ancora più degradate. Aspettiamo che il governo smentisca questi sbarchi”.
La situazione nell’hotspot di Lampedusa – L’anno scorso, a Lampedusa, sono arrivate 9507 persone. L’hotspot “era e in parte continua ad essere una struttura incongrua”, spiega Mauro Palma. Senza porte nemmeno per i water, con acqua corrente chiusa per la notte – anche per i bagni – con le persone costrette a mangiare per terra. “Una situazione scarsamente accettabile per 48 ore e inaccettabile alla lunga”, dice Palma. Non solo. “Pochi ormai venivano dalla rotta del deserto: su 140 persone incontrate nella mia ultima visita, ne ho trovate solo 18 che avevano fatto il percorso “classico”. Il resto sono tunisini. Capisco che questo ponga dei problemi, tant’è che i rimpatri verso la Tunisia vengono fatti due volte alla settimana. Ma rimane il fatto che non si può accettare un parametro per nazionalità”. “I rimpatri dei tunisini sono organizzati senza nessun controllo giurisdizionale”, chiosa Cristina Cecchini di Asgi.
“Quello di cui stiamo parlando è attualmente sotto la lente della Corte Europea per i diritti umani, da cui ieri è arrivata una richiesta di chiarimento al governo”, spiega Patrizio Gonnella, presidente di Cild. “Con il nostro sopralluogo a Lampedusa il 6 marzo abbiamo verificato che la maggiore esigenza per i migranti fosse quella di essere trasferiti in un centro di accoglienza idoneo, per richiedenti asilo, sulla terraferma”, spiega ancora Crescini. “Quindi abbiamo presentato ricorsi di urgenza alla Cedu per due nuclei famigliari e quattro cittadini tunisini che sono stati immediatamente trasferiti. Tra loro, una madre che aveva denunciato un tentativo di stupro sotto agli occhi della figlia, svenuta a sua volta per un attacco di panico. La stessa bambina, insieme a un’altra giovane donna, avrebbe, secondo le associazioni, subito poi “lesioni a causa delle violente cariche della polizia” in seguito all’incendio divampato nella struttura tra il 7 e l’8 marzo. “Sono stato picchiato tante volte dalla polizia e dagli altri maggiorenni”, racconta invece Ahmed alla delegazione Cild. Il nome è di fantasia, la sua minore età reale. “Anche un cane della polizia mi ha morso e i poliziotti ridevano mentre mi mordeva e non facevano nulla”.
“Abbiamo anche presentato dei ricorsi ordinari affinché la Cedu condanni il governo italiano per le violazioni commesse a Lampedusa e riconosca un indennizzo a queste persone rimaste per così tanto tempo in un hotspot che configura un trattamento disumano e degradante”, dice sempre l’avvocata Crescini. E dove “la libertà delle persone è stata violata senza che ci fosse un giudice a deciderlo”.
La situazione nei Centri per il rimpatrio – E poi c’è Potenza, nel cui centro per il rimpatrio sono stati portati alcuni dei migranti di Lampedusa. “Nei Cpr, ci segnalano, vengono manomesse le fotocamere, in modo che non possano uscire video o foto”, dice l’avvocato Gennaro Santoro. Tutti i migranti arrivati dall’hotspot di Lampedusa “sono accusati dell’incendio di Lampedusa”, racconta Yasmine Accardo della campagna LasciateCIEntrare. “Tutti hanno avuto problemi con la nomina di un avvocato di fiducia, assente nelle udienze di convalida”. Tanto che ci sarebbe stato anche, nei giorni scorsi, uno sciopero della fame. Nel centro di Torino, invece, secondo il dossier, va meglio: la maggioranza dei tunisini ha nominato avvocati di fiducia e “beneficiato dell’assistenza legale fiduciaria in occasione dell’udienza di convalida”. A Potenza, nel centro di San Gervasio, dove ci sono oggi 82 persone, soprattutto tunisini. “Siamo considerati soggetti inadeguati all’accesso: non possiamo quindi entrare a verificare le condizioni di accoglienza”, afferma Accardo. “E ci sono anche casi psichiatrici, che di certo in un centro per il rimpatrio non dovrebbero stare. I migranti poi ci segnalano l’uso di psicofarmaci per contenere la tensione”.
Il punto, per Mauro Palma, è che i Cpr – pur previsti dal decreto Minniti – sono “non pervenuti”. “Per ora io vedo ancora i vecchi Cie e qualche struttura come Potenza o Bari riattivata”, spiega a ilfattoquotidiano.it. “Non possiamo ancora parlare di violazione dei diritti umani, ma ci sono situazioni di degrado che alla lunga possono andare a ledere i diritti delle persone”.