“Un debito elevato rende i governi, le aziende e le famiglie più vulnerabili a una stretta delle condizioni finanziarie”, ha tuonato nei giorni scorsi il numero uno del Fondo Monetario Internazionale Christine Lagarde, lanciando l’allarme per un debito, pubblico e privato, che a livello globale ha raggiunto la quota record di 164.000 miliardi di dollari. Oltreoceano dovrebbero ben saperlo: di troppo debito nel 2008 il sistema finanziario statunitense ha rischiato di morire. Con l’aiuto di Stato e contribuenti la sbornia è stata smaltita. Il vizio invece è rimasto. Ora come allora il ricorso ai finanziamenti continua ad essere l’unico modo attraverso cui un numero crescente di famiglie riesce a sostenere i propri standard di vita. Non ci sono tempeste perfette all’orizzonte come quella dei mutui subprime ma tanti piccoli temporali che vanno formandosi e che per ora coinvolgono le categorie di debitori più deboli. Tre sono le voci che destano preoccupazione: prestiti scaduti sulle carte di credito, prestiti studenteschi e finanziamenti per l’acquisto di auto erogati ai consumatori economicamente meno solidi.
“Prese singolarmente nessuna di queste voci può rappresentare un fattore scatenante di una prossima crisi, gli importi non sono paragonabili a quelli dei mutui per la casa e i debitori sono diversi”, spiega a ilfattoquotidiano.it l’economista Martin Hellwig coautore insieme ad Anat Admati di “I vestiti nuovi dei banchieri”, il saggio sul sistema bancario statunitense e sui privilegi di cui gode. “Tuttavia, aggiunge Hellwig, devo sottolineare che i numeri aggregati del debito per gli Stati Uniti rimangono preoccupanti (nel complesso quasi 13.500 miliardi di dollari per il solo settore privato dopo 5 anni consecutivi di crescita, ndr) come per altre aree del mondo. In sostanza, dal 2007 ad oggi, non c’è stata alcuna riduzione del debito, nemmeno in termini relativi”.
Quella dei finanziamenti agli studenti universitari è una forma di indebitamento particolarmente perniciosa per il modo in cui è strutturata. Negli ultimi 10 anni il valore complessivo di questi finanziamenti è più che raddoppiato, balzando da 600 a 1.380 miliardi di dollari e rappresenta la seconda voce di debito privato dopo i mutui per la casa che valgono quasi 9.000 miliardi. Sono ben 42 milioni gli americani che hanno acceso prestiti per la propria formazione, soprattutto sta aumentando il numero di chi non riesce più a far fronte all’impegno delle rate, ormai oltre l’11% del totale. Di recente il neo presidente della Federal Reserve, Jerome Powell, ha affermato che la questione dei prestiti universitari potrebbe diventare un fattore in grado di frenare la crescita economica del Paese.
La scommessa, ragionevole, di chi contrae questi debiti è che investire su una buona università garantirà domani un salario con cui poter ripagare senza troppi problemi le rate del prestito. Non sempre però le cose vanno per il verso giusto. Il prestito non prevede infatti nessun tipo di flessibilità in relazione a quello che sarà il mercato del lavoro nel momento in cui si conclude il percorso di studi. E’ relativamente facile trovare un lavoro ben retribuito in un periodo di boom economico, lo è molto meno in una fase di recessione o di salari stagnanti come quello attuale. Inoltre questi finanziamenti non prevedono l’opzione di “bancarotta”, qualunque cosa accada il contraente è tenuto a pagare fino all’ultimo centesimo. Il rischio è quindi totalmente a carico di chi contrae il prestito. Il risultato è che molti americani rischiano di doversi trascinare per una buona parte della loro vita questo fardello finanziario che drena risorse per tutto il resto, a cominciare dai consumi. Per questo motivo il numero uno della Fed mette in guardia sul rischio che questa situazione può rappresentare per la crescita economica più che per il sistema finanziario, auspicando tra l’altro che venga inserita la possibilità di bancarotta.
La terza categoria di debiti statunitensi per valore è quella dei prestiti per l’acquisto di auto, complessivamente 1.200 miliardi di dollari. Le preoccupazioni qui si concentrano sui finanziamenti subprime, definizione sinistramente nota che definisce i crediti concessi a persone con scarse possibilità economiche. Come accadde nel 2008 per i mutui immobiliari questi prestiti sono stati impacchettati per costruire obbligazioni da vendere sul mercato. Il problema è che ora i tassi di insolvenza su questi prestiti stanno salendo (dal 5% del 2013 all’8% attuale) . Fortunatamente le cifre in gioco sono ancora relativamente modeste. Lo scorso anno sono stati emessi titoli con queste caratteristiche con un controvalore di 25 miliardi di dollari. Per avere un termine di paragone negli anni del boom di mutui immobiliari subprime (2005 e 2006) venivano riversate sul mercato obbligazioni per 1.200 miliardi di dollari.
A mostrare segnali di sofferenza sono infine anche le carte di credito. I prestiti contratti “strisciando” la carta ammontano a quasi 800 miliardi di dollari. Le insolvenze sono in crescita e ormai sui livelli più alti degli ultimi 7 anni. In particolare le prime 4 banche del paese (Citigroup, Jp Morgan, Bank of America e Wells Fargo) hanno accumulato nel 2017 perdite su carte di credito per 12,5 miliardi di dollari, due miliardi in più rispetto all’anno prima. E’ interessante notare come mentre i mancati pagamenti su carte di credito siano in salita , risultino in calo i debiti in sofferenza relativi ad aziende. Un andamento divergente che testimonia una ripresa dell’economia che non riesce a tradursi in benefici per i bilanci familiari.
Per ora, a differenza del 2008, l’eccesso di debito sembra insomma minacciare il tenore di vita dei cittadini piuttosto che i bilanci delle banche. Tanti piccoli campanelli d’allarme non andrebbero però sottovalutati, a maggior ragione in vista dei rialzi dei tassi di interesse che dovrebbe attuare la Federal Reserve quest’anno e che avranno anche l’effetto di appesantire molte rate, drenando ulteriori risorse ai budget domestici. Gli ultimi provvedimenti legislativi sostenuti dalla Casa Bianca sembrano andare nella direzione opposta. Il Congresso statunitense ha infatti iniziato a smantellare la riforma Dodd-Frank, varata dopo la crisi del 2008 per imporre vincoli più rigidi alle banche. La soglia oltre cui una banca viene considerata “sistemica”, e dunque sottoposta a maggiori paletti per la sicurezza del sistema finanziario nel suo complesso, è stata elevata dal Senato da 50 a 250 miliardi di dollari.