di Riccardo Cristiano*
In occasione della recente presentazione del rapporto del Centro Astalli sull’emergenza delle migrazioni forzate, padre Fabio Baggio – sottosegretario di papa Francesco alla sezione Migranti e Rifugiati – ha raccontato un particolare di estrema importanza.
Come è noto, da quando è stato creato questo dipartimento all’interno del dicastero vaticano per la sviluppo umano integrale, Jorge Maria Bergoglio lo presiede in prima persona. Vi lavorano in tre: papa Francesco, padre Baggio e un suo collega. Si riuniscono (ha reso noto padre Baggio) una volta al mese. In una circostanza papa Francesco a un certo punto si è alzato, è uscito dalla stanza dove era in corso la riunione ed è tornato indossando un giubbotto salvavita, di quelli che i profughi indossano mentre attraversano il Mediterraneo.
Dunque papa Francesco custodisce tra le sue cose questo giubbotto salvavita. Lo avrà preso a Lampedusa, durante la sua visita? O forse a Lesbo? No, basta documentarsi un minimo per sapere che gli è stato regalato il 26 maggio 2016 da Oscar Camps, presidente dell’associazione spagnola Proactiva Open Arms, una delle poche rimaste a soccorrere i migranti al largo delle coste della Libia e che recentemente è stata inquisita dalla procura di Catania nell’ambito di un’inchiesta su uno sbarco di migranti avvenuto a Pozzallo, in provincia di Ragusa.
Proprio Oscar Camps, il comandante e il coordinatore della nave sono stati indagati per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: sono sospettati di avere portato in Italia illegalmente 218 migranti soccorsi in mare, ignorando l’indicazione delle autorità italiane di consegnarli ai libici. Visto quel sappiamo sui campi di internamento dei migranti in Libia, Oscar Camps e gli altri esponenti inquisiti, hanno certamente sottratto a un destino osceno 218 persone.
Il giubbotto salvavita da loro donato al Papa non è finito nel deposito dove probabilmente vengono custoditi gli infiniti doni che arrivano o vengono dati al Pontefice. Ma Bergoglio, quel giubbotto lo tiene tra i suoi effetti personali. Ora veniamo a sapere che durante una riunione della sezione Migranti e Rifugiati lo è andato a prendere e lo ha indossato. Perché? Perché, stando a quanto spiegato da padre Baggio, doveva dire che quella sezione di lavoro doveva avere un obiettivo a breve termine, uno a medio e uno a lungo termine: “e l’obiettivo a breve è questo: salvare vite”, avrebbe detto ai suo due collaboratori il Papa tornato a partecipare a quella riunione con quel giubbotto.
Questo dettaglio (raccontato questa settimana a Roma) aiuta a capire chi sia papa Francesco, a mio avviso, più di molto altro. E l’importanza di quanto raccontato per me è stata dilatata dal fatto che, mentre padre Baggio parlava, avevo proprio davanti a me un giovane arrivato in Italia proprio con quei barconi. Guardarlo quando il racconto – che ha avuto lo spazio di un inciso – è finito è stato difficilissimo.
Il fatto che un uomo che nella vita fa il Papa possa aver avvertito il bisogno di alzarsi per andare a prendere un giubbotto salvavita che lui ha con sé, mi ha aiutato a capire Bergoglio molto più di tanto altro. Per questo non esito a credere che quanto detto proprio in quell’occasione dal presidente del Centro Astalli, padre Camillo Ripamonti, rispecchi il pensiero del Papa esprimendo “la nostra profonda contrarietà all’accordo con la Turchia che impedisce, di fatto, l’accesso in Europa soprattutto ai siriani in fuga da una guerra che dura ormai da sette anni e [manifestando] la nostra preoccupazione per accordi simili che avrebbero potuto interessare altri Paesi”.
Purtroppo, ha aggiunto, l’allarme era fondato, visto che “l’accordo con la Libia è stato stipulato a luglio 2017”. Un accordo, ha aggiunto padre Ripamonti, che “ha ridotto notevolmente il numero degli arrivi in Europa, attraverso la rotta del Mediterraneo centrale, ma il prezzo che viene pagato in termini di violenza sulle persone è inimmaginabile”. “Quello che viene salutato come un successo – ha aggiunto – è per noi una grande sconfitta dell’Italia e dell’Europa intera, confermata nei giorni scorsi dalla notizia che la Corte penale dell’Aja sta indagando per crimini internazionali perpetrati contro i migranti in Libia”.
Ragionare così aiuta a spezzare un altro luogo comune per arrivare a vedere che chi costruisce muri favorisce i mercanti di esseri umani. E non si può non considerare che nel 2017 i “migranti forzati” nel mondo sono diventati 65,6 milioni di persone. Nove dei dieci Paesi che accolgono il numero più alto di rifugiati si trovano in regioni in via si sviluppo. Solo per quanto riguarda la Siria – dove eserciti tra i più potenti al mondo, sono all’opera da anni – i rifugiati all’estero sono 5 milioni e 500mila; 2,2 milioni di rifugiati afghani vivono in Pakistan e il governo pakistano ha avviato una politico di rimpatrio forzato, come poi hanno fatto diversi governi europei perché a loro avviso in Afghanistan le condizioni di sicurezza sarebbero “migliorate”.
Un terzo dei Paesi del mondo presenta recinzioni, lungo i propri confini. 12 di queste recinzioni sono in Africa, 36 in Asia, 16 in Europa, 14 delle quali avviate dopo il 2013 con la finalità di fermare il flusso di migranti. Il conto di quanto si spenda per la militarizzazione dei confini non lo tiene nessuno, che io sappia. L’accordo tra Europa e Turchia ha nei fatti intrappolato in Grecia 57mila persone e sebbene siano stati stanziati ingenti fondi non si è riusciti a dare costoro, il 40% di loro sono bambini, accesso a servizi di base. Tutto questo per chi durante una riunione si alza e va a prendere un giubbotto salvavita non deve avere una logica.
*Vaticanista di Reset