Nato nel 1932 a Caslav, un paesino boemo, Forman vide i genitori morire nei campi di concentramento nazisti. Sopravvisse alla guerra vivendo con gli zii poi già da adolescente coltivò e mise in pratica la sua passione per i classici del cinema soprattutto la vena comica e dolente di Chaplin e Keaton
Addio Milos Forman. Il regista cecoslovacco premio Oscar per Qualcuno volò sul nido del cuculo e Amadeus è morto nella sua casa del Connecticut a 86 anni. Cineasta esteticamente raffinato, politicamente impegnato, e spesso incline ad una sintesi spettacolare nel ricostruire atmosfere storiche in costume, Forman è stato il tipico rappresentante della cultura cinematografica europea che migrò a Hollywood tra gli anni sessanta/settanta. Nato nel 1932 a Caslav, un paesino boemo, Forman vide i genitori morire nei campi di concentramento nazisti. Sopravvisse alla guerra vivendo con gli zii poi già da adolescente coltivò e mise in pratica la sua passione per i classici del cinema soprattutto la vena comica e dolente di Chaplin e Keaton, componente poetica essenziale dei suoi futuri lavori che non fu mai assente, perfino nell’intenso successo da Oscar di Qualcuno volò sul nido del cuculo, anche solo per stemperare e screziare i momenti più tragici dei propri racconti. Inarrivabile è infatti la sintesi tra risata e commozione attorno al corpo comico cinematografico di Andy Kaufman/Jim Carrey in Man on the moon (1999).
Forman si fece conoscere nella Cecoslovacchia dei primi anni sessanta facendo parte, assieme a Jiri Menzel, Jan Nemec e Ivan Passer (poi suo fido sceneggiatore) della Nova Vlna: la Nouvelle Vague cecoslovacca che attraverso il grande schermo sferzò e mise alla berlina il sistema oppressivo, violento e ottuso della dittatura sovietica applicata in terra ceca. Forman girò dapprima L’asso di picche (1964) che vinse il Festival di Locarno, poi Gli amori di una bionda (1965), sagace commedia con protagonista un’operaia di una fabbrica di calzature alla ricerca dell’uomo giusto con cui avere una relazione sentimentale. Infine il cult per eccellenza: Al fuoco, pompieri (1967), satira ben poco metaforica del sistema burocratico comunista, con molti attori non professionisti, prodotto tra gli altri da Carlo Ponti, e mostrato per tre settimane in sala nell’interregno “illuminato” di Dubcek poi smontato con l’arrivo dei carri armati sovietici. Censurato e contestato, il film divenne per molto tempo invisibile al grande pubblico. Forman che durante i concitati momenti della primavera di Praga si trovava a Parigi in compagnia di Godard e Truffaut decise di rimanerci e da lì inizio la sua carriera hollywoodiana con Taking off (1971) – Grand Prix a Cannes – uno strano comico ingorgo controculturale e generazionale dove una coppia di genitori impaurita dalla fuga da casa della propria figlia, impara a fumare marjuana e a vivere la sessualità in modo meno rigido.
Il vero “capolavoro” del regista ceco è però stato un altro. Quello di farsi assegnare la regia di Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975). Tratto dal romanzo di Ken Kesey (che poi non volle mai vedere il film), lo script di Bo Goldman e Lawrence Hauben era stato opzionato dalla famiglia Douglas in veste di produttrice. Scartate decine di attori, tra cui lo stesso Kirk nella parte del protagonista, arrivarono poi Jack Nicholson e Louise Fletcher negli indimenticabili panni di Randle Patrick McMurphy e dell’infermiera Ratched per un successo di critica e ancor di più commerciale (92esimo incasso di tutti i tempi) lanciando Forman nell’olimpo dei “director” di Hollywood quando appunto gli studios stavano traballando e ricevevano i duri colpi di autonomia creativa e finanziaria dei Coppola, Lucas, Spielberg e compagnia.
Nel 1979 Forman ritornò dietro la macchina da presa, a dire il vero arrivando un po’ lungo, con il musical Hair che aveva già fatto il suo a Broadway e che soprattutto metteva in scena un mondo hippie quando quell’universo giovanile era già sul viale del tramonto. Forman rese comunque Hair un musical naturalistico e febbrile, per certi versi quasi decadente, davvero fuori dal tempo. Tempo quattro anni, e un altro discreto flop in mezzo come Ragtime (tratto dall’immenso Doctorow, e prodotto da Dino De Laurentiis), Forman si riprese subito dalla scoppola del box office con Amadeus. Tornato nella sua nativa Cecoslovacchia per tutti gli esterni e tantissimi interni, l’autore ceco utilizzò perlopiù attori teatrali e ancora poco conosciuti per interpretare Wolfgang Amadeus Mozart (Thomas Hulce) e il suo rivale Antonio Salieri (F. Murray Abraham). Assieme a Peter Shaffer, Forman creò un adattamento estremamente convincente dello spettacolo teatrale e mostrò smaccatamente la spettacolarità autentica delle partiture mozartiane a risuonare in una storia dinamica e sulfurea di rivalità e follia fino allo sfinimento. Otto gli Oscar, tra cui miglior film, regia, suono, attore protagonista (Abraham) e maggior suo successo al botteghino dopo il Cuculo.
Nel 1989 è il turno di Valmont, un adattamento corposo e fascinoso de Le relazioni pericolose con un imberbe Colin Firth, una già stregata Annette Bening e una ancora acerba Meg Tilly. Nel 1996 invece arriva il controverso e provocatorio Larry Flynt (Orso d’oro a Berlino). Biopic dedicato a Flint, il fondatore della rivista Hustler, sesso hardcore tra le pagine patinate che scatenò negli anni settanta gli animi più puritani della cultura americana. Forman sguazzò in questa contraddizione antropologica, come aveva già fatto nelle sue opere anni sessanta in Cecoslovacchia. Religiosità e immoralità del protagonista si sposarono dentro al solito sfondo di ambiguità sociale e latente violenza istituzionalizzata che poteva esplodere da un attimo all’altro. Woody Harrelson al suo top, Edward Norton che compie i primi passi da grande attore e Courtney Love, vedova Cobain che Forman si porterà con sé nel memorabile Man on the moon (1999). Il set più travagliato e incomprensibile di Forman: liti, sputi, risse, incomprensioni. Il regista ceco e Jim Carrey che interpretava il comico Andy Kaufman non andarono mai d’accordo durante le riprese, probabilmente nemmeno per un minuto intero, ma tra la canzone dei REM e un Carrey che è già Kaufman prima di iniziare, Forman non poté far altro che filmare la crasi tra risata e lacrima, tra felicità e dolore, per donarci il suo capolavoro dell’oramai consolidata maturità artistica.
Del 2006 l’ultima vera ed intrigante traccia di Forman. L’ultimo inquisitore, sceneggiato dal bunueliano Jean Claude Carriere, è l’ultimo capitolo del discorso libertario dell’artista ceco fuggito dall’oscurantismo comunista negli anni sessanta. Attraverso la figura storica di Francisco Goya (un inatteso Stellan Skarsgard) Forman amplifica il discorso dell’arte come dardo eversivo lanciato nel cuore delle insensate e illogiche forme istituzionali del potere, qui con un mirabile blocco narrativo in cui è un prete (Javier Bardem) fervente sostenitore dei metodi di tortura dell’Inquisizione ad essere sottoposto lui stesso agli stessi metodi tanto esaltati. Film sottovalutato all’epoca assolutamente da recuperare in queste ore di triste dipartita. Forman stava preparando da tempo uno script su Il fantasma di Monaco, scritto dall’amico ed ex presidente della repubblica Vaclav Havel sulla conferenza e l’accordo di Monaco che nel 1938 decise l’annessione dei Sudeti, regione cecoslovacca a maggioranza tedesca, alla Germania nazista. I personaggi da interpretare sarebbero dovuti essere Hitler, Mussolin, Daladier e Chamberlain. Un motivo ulteriore, quello del film che non ci sarà mai, per dire che Forman ci mancherà ancora di più.