Un primo elemento che si può dedurre dall’attacco Usa in Siria, con l’appoggio di Francia e Gran Bretagna, è la volontà di dare un segnale forte, senza però che il conflitto militare sfugga di mano. Da questo punto di vista, sono importanti alcuni segnali che Casa Bianca e Pentagono hanno offerto, mentre l’intervento era ancora in corso. Anzitutto, che si sarebbe trattato di “one-time shot”, un attacco singolo, isolato, senza una replica possibile. Donald Trump, nell’annunciare l’intervento, ha poi spiegato gli Stati Uniti non vogliono restare nell’area: “Pensiamo di portare a casa i nostri guerrieri”, ha detto. Per evitare un possibile, e temutissimo allargamento del conflitto, i generali americani hanno anche allertato i russi dello spazio aereo che i jet Usa avrebbero percorso (non gli obiettivi militari che sarebbero stati colpiti).
Una risposta “contenuta” è stata dunque la strada scelta dagli Stati Uniti. Risposta contenuta che però non significa risposta debole. Il Pentagono è stato molto attento a mettere in evidenza che l’attacco di queste ore è, da un punto di vista di forza militare, molto più forte di quello scattato nel 2017, come reazione all’uso di armi chimiche a Khan Shaykhun. Un anno fa erano stati usati 59 missili, questa volta circa il doppio; allora si era fatto ricorso solo ai missili, questa volta sono stati utilizzati missili e jet. L’avvertimento che gli Stati Uniti lanciano al presidente Assad è quindi un passo ulteriore rispetto al passato; ma non vuole essere un passo affrettato. Lo dimostra anche la pubblicazione, da parte della Casa Bianca, dei documenti che comproverebbero l’uso di armi chimiche da parte del regime siriano a Douma il 7 aprile: le testimonianze di chi dice di aver visto elicotteri sganciare “barrel bombs”; foto dei siti colpiti; gli effetti sulla salute delle popolazioni colpite. La pubblicazione di queste “prove” è un elemento che si va dunque ad aggiungere a una strategia che punta a essere limitata e “giustificata”.
Il fatto che l’amministrazione Usa abbia scelto questa strada ci dice un’altra cosa: che, per il momento, è il capo del Pentagono, il generale James Mattis, a condurre il gioco – e che quindi l’arrivo di John Bolton come consigliere alla sicurezza nazionale non ha prodotto quella svolta militarista che alcuni temevano. Nei giorni scorsi fonti del Pentagono avevano parlato di uno scontro duro tra Mattis – e il Chairman of the Joint Chief of Staff Joseph Dunford – e Bolton: se i primi due evocavano un attacco limitato, Bolton era per un coinvolgimento più profondo nel conflitto. Come la pensasse Mattis è chiaro anche da quanto il generale ha detto davanti alla Commissione Forze Armate della Camera Usa giovedì scorso: “Stiamo cercando di bloccare l’assassinio di gente innocente, ma ciò che mi interessa è come fare ciò evitando di perdere il controllo del conflitto”. Alla fine, è passata la linea di Mattis. E anche Trump, che era partito lancia in resta con una serie di tweet in cui prometteva dei “bei missili intelligenti sulla Siria”, alla fine ha dovuto adeguarsi. Anche il fatto di annunciare l’attacco da giorni, senza però mai farlo scattare, è probabilmente un segno del fatto che gli americani non abbiano puntato a una escalation del conflitto: in questo modo, si è dato tempo ad Assad di spostare la sua forza aerea nelle più sofisticate basi militari russe.
La rappresaglia Usa in Siria si colloca però, abbastanza ovviamente, in un contesto più vasto. Da un lato, le difficoltà interne che Trump sta ormai incontrando (in questo, anche i leader dei Paesi che hanno appoggiato gli Stati Uniti non sembrano messi meglio: Theresa May è in serie difficoltà su Brexit; Emmanuel Macron se la deve vedere con gli scioperi e con una popolarità a picco). Ma è Trump a vivere il momento più difficile. Le perquisizioni a uffici e abitazione del suo avvocato personale, Michael Cohen, sono un passo ulteriore della guerra che l’Fbi sta muovendo al presidente. L’uscita, in questi giorni, del mémoir di James Comey, l’ex direttore dell’Fbi licenziato proprio da Trump, è un colpo ulteriore. Pur senza portare nuovi indizi che possano rendere più precaria la situazione giudiziaria del presidente, Comey dipinge un ritratto spietato di Trump, paragonandolo a un boss della mafia. La guerra ormai aperta che settori importanti del governo stanno muovendo alla Casa Bianca può dunque indebolire prestigio ed efficacia delle scelte di questa amministrazione. Anche di quelle internazionali.
C’è poi un’altra questione. L’attacco/rappresaglia in Siria non ha sollevato grande opposizione al Congresso Usa; solo alcuni, per esempio la senatrice del Massachussetts Elizabeth Warren, lamentano il fatto che Trump non sia passato dal Congresso per l’autorizzazione all’intervento militare. Il tacito via libera a questa rappresaglia non significa però un assegno in bianco alle politiche internazionali di questa amministrazione. Soltanto due settimane fa Trump in un comizio diceva di voler ritirare definitivamente il contingente militare americano in Siria. Oggi bombarda la Siria. Questa dimensione ondivaga e imprevedibile di Trump si è del resto misurata in molti altri ambiti internazionali: i continui tira e molla sul commercio con la Cina; le minacce e i riavvicinamenti alla Corea del Nord; gli alti e bassi nei rapporti con gli alleati europei. La mancanza di una strategia chiara si evidenzia anche in Siria ed appare molto chiara ad ampi settori del Congresso e dei militari Usa, che ora si chiedono: dopo l’attacco, che fare?