Il generale libico Khalifa Haftar è ricoverato in un ospedale a Parigi, ma tornerà in Libia tra qualche giorno per “continuare la lotta al terrorismo”. Lo ha dichiarato su Twitter il portavoce di Haftar, Ahmed al-Mesmari, spiegando le circostanze che hanno portato al ricovero dell’uomo forte della Cirenaica e così smentendo la notizia della morte riportata dai media locali.
Haftar, secondo al-Mesmari (nella foto), si è sentito male nel corso di una serie di visite programmate in diversi Paesi e che si è recato in un ospedale di Parigi per normali esami medici. La fonte non fornisce elementi precisi sullo stato di salute del militare. Intanto Ghassan Salame, inviato dell’Onu in Libia, avrebbe avuto una conversazione telefonica di circa 10 minuti con Haftar scrive oggi il quotidiano Lybian Express, citando come fonte lo stesso Salame.
La notizia del decesso era rimbalzata venerdì sera su diversi media libici, ma senza conferme ufficiali, dopo giorni in cui si rincorrevano le voci di un aggravamento delle condizioni di salute dell’uomo ricoverato d’urgenza a Parigi per un ictus. Alle mancate conferme, tra l’altro, si è aggiunta una comunicazione dell’Unsmil, la missione Onu in Libia, secondo cui l’inviato Ghassam Salamé e Haftar hanno discusso proprio oggi per telefono sugli sviluppi politici del paese.
Una smentita, seppure indiretta, alla morte del generale, era arrivata poi dal capo del parlamento di Tobruk, nell’est dalla Libia, di fatto il contropotere che si divide con Tripoli la leadership nel paese nordafricano. Secondo il sito Al Wasat, Aqila Saleh avrebbe avuto “contatti” con Haftar ed avrebbe smentito di aver già nominato un suo successore alla guida delle forze armate.
Il clamore sulla vicenda di Haftar, comunque, dà il senso del suo peso nei fragilissimi equilibri libici, e la sua presunta morte può creare ulteriore incertezza. La possibile uscita di scena del generale della Cirenaica aprirebbe infatti scenari inesplorati: senza la sua ingombrante presenza, rischia di frantumarsi la coalizione di forze che aveva creato senza peraltro indicare un possibile successore. Coalizione, collegata al parlamento di Tobruk, che il generale ha spesso contrapposto al governo di Tripoli, guidato dal premier Fayez Al Sarraj e riconosciuto dalla comunità internazionale.
L’ambizione del 75enne Haftar era quella di fare il leader: dal 2014 – in parallelo con il percorso del presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi – aveva assunto il ruolo di castigatore di jihadisti e Fratelli musulmani, che ha cacciato da Bengasi in maniera completa a dicembre. Ma controllava anche buona parte del paese grazie ad appoggi di alleati stranieri – Emirati Arabi Uniti ed Egitto in testa – che gli hanno consentito di conquistare pure alcuni strategici terminal petroliferi. L’inconfessata presenza di paramilitari a Bengasi e la tutto sommato inutile stretta di mano dell’estate scorsa col premier Fayez Al Sarraj a Parigi – con il presidente francese Emmanuel Macron in mezzo alle foto – hanno attestato il sostegno della Francia. Il colbacco con cui si è lasciato fotografare a Mosca simboleggiava invece quello russo. Ma Haftar aveva anche un forte legame con gli Usa. Era stato fra gli ufficiali che aiutarono Muammar Gheddafi ad abbattere re Idris nel 1969 ma poi il colonnello-rais lo scaricò quando il militare si fece catturare in Ciad nell’87: da lì Haftar guidò un fallito golpe sostenuto dalla Cia per abbattere Gheddafi e finì a vivere per due decenni da esiliato in un sobborgo della Virginia, diventando pure cittadino naturalizzato americano. Il legame con gli Usa era stato rinverdito di recente, oltre che da incontri ad Amman, con un via libera al ritorno della Cia a Bengasi. L’esercito nazionale libico (Lna), di cui era o è ancora “comandante generale“, pur presentandosi come perfettamente inquadrato resta un mix di milizie e reparti regolari. Una formazione però abbastanza forte da spingersi a controllare anche tratti del deserto meridionale della Libia, un altro teatro di potenziale caos. A livello politico, a Parigi l’anno scorso firmò un accordo per tenere elezioni presidenziali entro quest’anno: una possibilità ormai fattasi remota. E sebbene gli venissero ascritte velleità di candidatura, la sua concezione del paese orfano di Gheddafi era – ancora un volta sulla falsariga di Sisi – pessimista: “La Libia di oggi non è matura per la democrazia”, che potrà essere sperimentata “forse da future generazioni”, disse ancora in marzo al settimanale Jeune Afrique.