Impossibilitato a partecipare al debutto della prima opera-panettone della storia, quel Non è un paese per Veggy che, con musiche di Domenico Turi e libretto di Federico Capitoni, ha debuttato lo scorso dicembre al Teatro Palladium di Roma nella cornice del 54° Festival di Nuova Consonanza, ho finalmente avuto il tempo, libretto e partitura alla mano, per goderla in video. Quella che segue ne è perciò una personale e, per i motivi che mi appresto ad elencare, decisamente entusiastica recensione.

Veggy, soprannome del regista Diotallevi, personaggio principale dell’opera, è un vegano convinto, ma il suo essere vegano viene in qualche modo scimmiottato fin dalle primissime battute, la qual cosa racchiude il veganesimo stesso all’interno di una cornice grottesca: la moda è ciò che chiaramente emerge da questo genere di narrazione, e scelte che dovrebbero dipendere da precisi orientamenti esistenziali si rivelano essere una diretta conseguenza dell’appartenenza a determinati gruppi sociali. Momento topico è dunque in tal senso il manifesto dietetico di Cecilia, il soprano che, causa indisposizione, sostituisce Giulia Serbelloni nell’opera che presso il teatro della città, lo Snob Theatre, si sta allestendo: Veggy è inorridito dal suo grasso in eccesso, che da vegano coi paraocchi non può che attribuire a possibili abbuffate di tofu. Convinzione presto smentita da Cecilia, che fieramente esclama: “Ma quale tofu? A me piace la porchetta!”, affermazione che musicalmente Domenico Turi poggia su una sonora quinta vuota, tale da rimarcarne una certa disumanità.

È poi in perfetto stile radical chic, categoria sociale che l’opera più o meno apertamente schernisce, che Veggy, sommo rappresentante di questa specie umana, traspone “veganamente” le celebri parole del Nanni Moretti di Palombella rossa, così che il famoso “Chi parla male pensa male” diviene di colpo “Chi mangia male pensa male”, e altrimenti, dato il contesto, non sarebbe potuto essere.

Parlare di Non è un paese per Veggy è importante per svariati motivi: il primo, imprescindibile, è che troppo spesso ci si lamenta dell’odierno vuoto pneumatico in tema di produzione lirica, ma poi non si fa abbastanza per promuovere quel poco di veramente buono che comunque viene fatto; il secondo, meno imprescindibile ma più adeguato, è che l’opera è stata definita, oltre che trash e panettone, anche contemporanea, ma di contemporaneo, e Dio sia lodato, ha, nel senso stretto del termine e per l’utilizzo che dello stesso si fa in ambito accademico, veramente poco: nessuno cioè degli stilemi di certa musica colta degli ultimi decenni interessa quest’opera che, per freschezza e passione, si presenta veramente nuova, immediata seppur strutturalmente corazzata.

Il terzo motivo risiede nel libretto, che finalmente punta la sua attenzione sull’attualità, sulle dinamiche sociali e culturali odierne, sulle loro criticità e contraddizioni: è un’opera dunque che costringe lo spettatore a stare qui ed ora, un’opera che non tenta fughe in un altrove rassicurante o distraente, un’opera che vuole occuparsi dell’oggi e del vicino, del prossimo e dell’altro, quello vero, non immaginario. Postverismo? Postmoderno? Non interessa affatto, perché Non è un paese per Veggy è un’opera, e nei suoi contenuti letterari e nei suoi contenuti musicali, vera, calata nelle nostre verità, belle o brutte che siano.

Le incursioni di stili popular come il rappato trovano ragion d’essere perché necessari a tradurre il più efficacemente possibile situazioni emotive, individuali o collettive, altrimenti molto meno efficacemente comunicabili. Non siamo dunque dinanzi alla pretesa di creare nuovi generi misti, come spesso si è visto negli ultimi tempi con risultati non proprio felicissimi: assistiamo semplicemente ma felicemente alla incorporazione di linguaggi eterogenei nel contesto di un grande contenitore quale l’opera può ancora ambire ad essere. I risultati di un’operazione tanto felice si vedono subito: il pubblico, esattamente come nella migliore delle tradizioni buffe, si diverte sul serio, ma soprattutto partecipa emotivamente ed empatizza con un’opera che, una volta tanto, non guarda dall’alto in basso i suoi spettatori, no, li prende per mano e li trascina in una danza vorticosa, coinvolgente, sfrenata!

Un’opera cinica, esattamente come la società che viviamo oggigiorno, un’opera che non fa sconti e i cui riferimenti a fatti o persone più o meno note sono alquanto evidenti: come la giornalista che irrompe sulla scena e che per far carriera ha dovuto lavorarsi ben benino il direttore del giornale. Tutti però, o quasi, sono compromessi, ognuno fra i personaggi avrebbe da rimproverarsi espedienti e ripieghi di vari tipo: ma non lo fanno, e dunque, molto semplicemente, il problema non si pone. Veggy, unico puro (o quasi), muore, e l’antifona è servita. Resta da augurarsi che un’opera del genere, che è anzitutto un’operazione intelligente, sagace, brillante e giustamente coinvolgente, trovi lo spazio che merita nei migliori teatri del Paese.

Dunque, in un impeto di mal riposta speranza, è ai grandi enti lirici che rivolgiamo le ultime battute, quello fiorentino, quello romano, quello milanese, quello napoletano: mettete in cartellone una simile novità, aprite le porte all’avvenire, che a guardare dietro si fa sempre in tempo.

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