“Non sarà una sentenza a chiudere la partita”. A pochi giorni dalla decisione del tribunale di Torino che ha respinto il riconoscimento dello stato di lavoratore dipendente a sei fattorini della società tedesca del delivery Foodora, i riders d’Italia si sono dati appuntamento a Bologna per la prima assemblea nazionale. Sono arrivati di domenica (15 aprile), da Genova, Torino, La Spezia, Brescia, Milano, Roma, ma anche Torino, con un solo obiettivo: conoscersi e fare rete per rivendicare retribuzioni dignitose e diritti, come ferie, malattia, assicurazione contro gli incidenti. Tra loro anche Giuseppe e Riccardo, due dei sei fattorini del cibo a domicilio che avevano fatto causa a Foodora, contestando l’interruzione improvvisa del rapporto di lavoro dopo le mobilitazioni del 2016 per ottenere un giusto trattamento economico. Mercoledì scorso il tribunale di Torino ha respinto il ricorso, primo del genere in Italia. Ma la sentenza, assicurano i giovani della gig economy, non è un freno alle prospettive: “È evidente che il diritto del lavoro in Italia è ancora indietro rispetto a quelle che sono le nuove forme del lavoro, ma la strada giuridica non è l’unica percorribile, come dimostra l’assemblea di oggi. C’è anche quella della mobilitazione, della lotta e della politica”, dice Tommaso Falchi di Riders Union Bologna.
Il primo solco della via alternativa l’hanno tracciato qui, sotto le Due Torri, i “portapizze” bolognesi: nei mesi scorso si sono organizzati in un sindacato autonomo, Riders Union, che riunisce i collaboratori digitali, circa trecento, delle principali piattaforme che operano in città, da Deliveroo a JustEat. E hanno iniziato la loro protesta, scioperando a novembre e dicembre, quando le multinazionali non hanno bloccato le consegne di cibo nei giorni di neve e intavolando una contrattazione con il Comune per ottenere condizioni minime di tutela. Dall’accordo, siglato da Riders Union, sindacati e amministrazione è nata la prima “Carta dei Diritti” dei ciclofattorini, un documento – il primo in Italia – che fissa i requisiti minimi, dalla sicurezza al trattamento economico, che le aziende del delivery food dovranno rispettare per poter operare in città. “Chiediamo copertura assicurativa totale sugli infortuni, attrezzature adeguate e manutenzione dei mezzi, una paga dignitosa per tutti, indennità in caso di maltempo”, prosegue Tommaso, “La Carta dovrà avere valore disincentivante e sanzionatorio per quelle piattaforme che decideranno di non adottarla”. La palla adesso passa a Palazzo D’Accursio, che ha avviato i colloqui tra l’assessorato e le piattaforme digitali e entro maggio dovrà convincerle a sottoscrivere il documento.
In attesa che il Parlamento europeo intervenga a regolamentare la cosiddetta “economia dei lavoretti”, la tendenza generale, da parte delle multinazionali della consegna del cibo, è “trasformare tutti i lavoratori in freelance pagati a consegna mentre il loro è un rapporto palesemente subordinato. In Belgio ci sono già riusciti”, spiega Daniele Manno in rappresentanza del “Collectif des coursier” all’”Internazionale” dei fattorini in bicilcetta. Rider-filosofo nella capitale belga da quattro anni, lo scorso gennaio Daniele è stato licenziato da Deliveroo per non aver accettato il passaggio al nuovo “status” da cottimista,“Occorre unire le forze e organizzare un movimento di resistenza all’”uberizzazione” in atto”. “Quella di Foodora è solo la prima di molte altre vertenze legali che verranno, soprattutto se a ogni mobilitazione corrisponderà un licenziamento, come è accaduto finora”, aggiunge Angelo del sindacato solidale Deliverance Project di Milano. “Finora ci sono state mobilitazioni in Spagna, Inghilterra, Francia, Olanda, ma anche in Australia e a Hong Kong. La questione è globale, le prime risposte deve darle l’Europa”