“A posteriori penso che sarebbe stato preferibile non telefonare a Loris D’Ambrosio. Ero preoccupato, eravamo in piena bufera giornalistica”. Il processo sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra si chiude con un rammarico: quello di Nicola Mancino, l’ex ministro dell’Interno imputato di falsa testimonianza. È lui l’ultimo imputato a prendere la parola per rendere dichiarazioni spontanee davanti alla corte d’Assise di Palermo. Poi, dopo cinque anni di dibattimento, più di duecento udienze e quasi trecento testimoni, i giudici guidati da Alfredo Montalto sono entrati in camera di consiglio nell’aula bunker del carcere Pagliarelli di Palermo. Da lì si prevede che escano alla fine della settimana con una sentenza sui nove imputati del processo sul Patto Stato – mafia.
“Mai commesso reato di falsa testimonianza” – Tra questi appunto Mancino, che ha sostenuto di non aver “mai commesso il reato di falsa testimonianza” e si è praticamente “pentito” di aver telefonato a Loris D’Ambrosio, all’epoca consigliere giuridico del Quirinale. In quelle chiamate, intercettate dai pm, l’ex ministro cercava di evitare il confronto con l’ex guardasigilli Claudio Martelli. “In quelle intercettazioni risulta il tentativo da parte del privato cittadino Mancino di influire e condizionare l’attività giudiziaria e addirittura le scelte di un collegio dei giudici”, aveva detto il pm Nino Di Matteo durante la requisitoria. Secondo l’accusa, infatti, quelle telefonate proverebbero il timore di Mancino nell’affrontare davanti al tribunale Martelli, che aveva dichiarato di avergli espresso già nel 1992 i suoi dubbi sulla correttezza dell’operato del Ros, in quel momento impegnato nell’aprire un canale di comunicazione con Vito Ciancimino. “Per me era un confronto inutile – sostiene però Mancino – E a Grasso (Piero Grasso, allora capo della Dna ndr) non chiesi mai l’avocazione dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia ma solo il coordinamento dell’azione delle sei procure coinvolte nell’indagine. Basti pensare che nessun ufficio inquirente riteneva attendibile Ciancimino, mentre Ingroia, allora alla procura di Palermo, dichiarava che avrebbe valutato le sue dichiarazioni volta per volta”.
Il Romanzo Quirinale: “Non chiesi l’inteferenza del Colle” – Ma non solo. Perché oltre che con D’Ambrosio, Mancino venne intercettato per quattro volte mentre dall’altra parte del telefono c’era la voce di Giorgio Napolitano. Per quelle intercettazioni il Quirinale sollevò un conflitto di attribuzione di poteri contro la procura di Palermo davanti alla Corte costituzionale, che in tempi record ne ordinò la distruzione tra le polemiche. “Ma in quelle telefonate – ha sostenuto ancora Mancino – non c’è traccia di interferenze o di richieste di inferenze nei confronti dei magistrati palermitani. Non sapevo d’essere intercettato – anche perché non iscritto nell’apposito registro – e, perciò, le mie conversazioni non aiutano l’accusa ad avvalersene per rafforzare la mia responsabilità. Quando, da parte del Presidente Napolitano venne sollevato il conflitto di attribuzione sulle intercettazioni tra Mancino e il Quirinale furono proprio i pm palermitani Ingroia e Di Matteo a escludere interferenza sulle indagini. Anche il procuratore Francesco Messineo fece una dichiarazione in tal senso”.
L’incontro con Borsellino – Nelle sue dichiarazioni spontanee l’ex ministro della Democrazia cristiana è tornato anche su un altro passaggio delicato che lo vede coinvolto: l’incontro con Paolo Borsellino l’1 luglio del 1992, nel giorno dell’insediamento al Viminale. “Quel primo luglio 1992, appena nominato ministro dell’Interno, mi giunse una telefonata e il capo della polizia mi disse che il dottore Borsellino voleva salutarmi. Non lo conoscevo fisicamente e non escludo che nella ressa gli abbia stretto la mano. Ma di certo non ci fu alcun colloquio. Lo ha detto anche il giudice Aliquò, che era presente e riferì che fu impossibile parlarmi. Può bastare la parola di un giudice per dire una parola definitiva su questa grande congettura?”, sono state le parole di Mancino sull’episodio.
Le richieste di pena – Per l’ex ministro, i pm Roberto Tartaglia, Vittorio Teresi e i sostituti della Procura nazionale antimafia Nino Di Matteo e Francesco Del Bene, hanno chiesto una condanna pari a sei anni di carcere: è l’unico imputato accusato di falsa testimonianza. Violenza o minaccia a un corpo politico dello Stato è invece il reato contestato ad altri sette imputati. Quindici anni di reclusione la pena chiesta per il generale Mario Mori, dodici per il generale Antonio Subranni e il colonnello Giuseppe De Donno. Dodici anni anche per l’ex senatore Marcello Dell’Utri. La pena più alta – 16 anni – è stata chiesta per il boss Leoluca Bagarella, 12 anni per Antonino Cinà, non doversi procedere, invece, per il pentito Giovanni Brusca. condanna a 5 anni per Per Massimo Ciancimino, principale teste del processo, i pm hanno chiesto cinque anni per l’accusa di calunnia e il non doversi procedere per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. “Questo processo – esordiva l’accusa nella sua requisitoria il 14 dicembre 2017 – ha avuto peculiarità rilevanti che lo hanno segnato fin dall’inizio. La storia ha riguardato i rapporti indebiti che ci sono stati tra alcuni esponenti di vertice di Cosa nostra e alcuni esponenti istituzionali dello Stato italiano”.
Cosa Nostra
Trattativa, Mancino: “Non rifarei le telefonate a D’Ambrosio”. I giudici entrano in camera di consiglio
L'ex ministro è l'ultimo imputato a prendere la parola per rendere dichiarazioni spontanee davanti alla corte d'Assise di Palermo. Poi, dopo cinque anni di dibattimento, più di duecento udienze e quasi trecento testimoni, i giudici guidati da Alfredo Montalto si sono ritirati per emettere la sentenza
“A posteriori penso che sarebbe stato preferibile non telefonare a Loris D’Ambrosio. Ero preoccupato, eravamo in piena bufera giornalistica”. Il processo sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra si chiude con un rammarico: quello di Nicola Mancino, l’ex ministro dell’Interno imputato di falsa testimonianza. È lui l’ultimo imputato a prendere la parola per rendere dichiarazioni spontanee davanti alla corte d’Assise di Palermo. Poi, dopo cinque anni di dibattimento, più di duecento udienze e quasi trecento testimoni, i giudici guidati da Alfredo Montalto sono entrati in camera di consiglio nell’aula bunker del carcere Pagliarelli di Palermo. Da lì si prevede che escano alla fine della settimana con una sentenza sui nove imputati del processo sul Patto Stato – mafia.
“Mai commesso reato di falsa testimonianza” – Tra questi appunto Mancino, che ha sostenuto di non aver “mai commesso il reato di falsa testimonianza” e si è praticamente “pentito” di aver telefonato a Loris D’Ambrosio, all’epoca consigliere giuridico del Quirinale. In quelle chiamate, intercettate dai pm, l’ex ministro cercava di evitare il confronto con l’ex guardasigilli Claudio Martelli. “In quelle intercettazioni risulta il tentativo da parte del privato cittadino Mancino di influire e condizionare l’attività giudiziaria e addirittura le scelte di un collegio dei giudici”, aveva detto il pm Nino Di Matteo durante la requisitoria. Secondo l’accusa, infatti, quelle telefonate proverebbero il timore di Mancino nell’affrontare davanti al tribunale Martelli, che aveva dichiarato di avergli espresso già nel 1992 i suoi dubbi sulla correttezza dell’operato del Ros, in quel momento impegnato nell’aprire un canale di comunicazione con Vito Ciancimino. “Per me era un confronto inutile – sostiene però Mancino – E a Grasso (Piero Grasso, allora capo della Dna ndr) non chiesi mai l’avocazione dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia ma solo il coordinamento dell’azione delle sei procure coinvolte nell’indagine. Basti pensare che nessun ufficio inquirente riteneva attendibile Ciancimino, mentre Ingroia, allora alla procura di Palermo, dichiarava che avrebbe valutato le sue dichiarazioni volta per volta”.
Il Romanzo Quirinale: “Non chiesi l’inteferenza del Colle” – Ma non solo. Perché oltre che con D’Ambrosio, Mancino venne intercettato per quattro volte mentre dall’altra parte del telefono c’era la voce di Giorgio Napolitano. Per quelle intercettazioni il Quirinale sollevò un conflitto di attribuzione di poteri contro la procura di Palermo davanti alla Corte costituzionale, che in tempi record ne ordinò la distruzione tra le polemiche. “Ma in quelle telefonate – ha sostenuto ancora Mancino – non c’è traccia di interferenze o di richieste di inferenze nei confronti dei magistrati palermitani. Non sapevo d’essere intercettato – anche perché non iscritto nell’apposito registro – e, perciò, le mie conversazioni non aiutano l’accusa ad avvalersene per rafforzare la mia responsabilità. Quando, da parte del Presidente Napolitano venne sollevato il conflitto di attribuzione sulle intercettazioni tra Mancino e il Quirinale furono proprio i pm palermitani Ingroia e Di Matteo a escludere interferenza sulle indagini. Anche il procuratore Francesco Messineo fece una dichiarazione in tal senso”.
L’incontro con Borsellino – Nelle sue dichiarazioni spontanee l’ex ministro della Democrazia cristiana è tornato anche su un altro passaggio delicato che lo vede coinvolto: l’incontro con Paolo Borsellino l’1 luglio del 1992, nel giorno dell’insediamento al Viminale. “Quel primo luglio 1992, appena nominato ministro dell’Interno, mi giunse una telefonata e il capo della polizia mi disse che il dottore Borsellino voleva salutarmi. Non lo conoscevo fisicamente e non escludo che nella ressa gli abbia stretto la mano. Ma di certo non ci fu alcun colloquio. Lo ha detto anche il giudice Aliquò, che era presente e riferì che fu impossibile parlarmi. Può bastare la parola di un giudice per dire una parola definitiva su questa grande congettura?”, sono state le parole di Mancino sull’episodio.
Le richieste di pena – Per l’ex ministro, i pm Roberto Tartaglia, Vittorio Teresi e i sostituti della Procura nazionale antimafia Nino Di Matteo e Francesco Del Bene, hanno chiesto una condanna pari a sei anni di carcere: è l’unico imputato accusato di falsa testimonianza. Violenza o minaccia a un corpo politico dello Stato è invece il reato contestato ad altri sette imputati. Quindici anni di reclusione la pena chiesta per il generale Mario Mori, dodici per il generale Antonio Subranni e il colonnello Giuseppe De Donno. Dodici anni anche per l’ex senatore Marcello Dell’Utri. La pena più alta – 16 anni – è stata chiesta per il boss Leoluca Bagarella, 12 anni per Antonino Cinà, non doversi procedere, invece, per il pentito Giovanni Brusca. condanna a 5 anni per Per Massimo Ciancimino, principale teste del processo, i pm hanno chiesto cinque anni per l’accusa di calunnia e il non doversi procedere per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. “Questo processo – esordiva l’accusa nella sua requisitoria il 14 dicembre 2017 – ha avuto peculiarità rilevanti che lo hanno segnato fin dall’inizio. La storia ha riguardato i rapporti indebiti che ci sono stati tra alcuni esponenti di vertice di Cosa nostra e alcuni esponenti istituzionali dello Stato italiano”.
B.COME BASTA!
di Marco Travaglio 14€ AcquistaArticolo Precedente
Mafia in Toscana, dai rifiuti della camorra agli appalti della ‘ndrangheta. “Ormai è una terra di criminalità organizzata”
Articolo Successivo
Mafia, fermati i cognati di Messina Denaro: “Matteo era in Calabria”. “Bimbo sciolto nell’acido? Hanno fatto bene”
Gentile lettore, la pubblicazione dei commenti è sospesa dalle 20 alle 9, i commenti per ogni articolo saranno chiusi dopo 72 ore, il massimo di caratteri consentito per ogni messaggio è di 1.500 e ogni utente può postare al massimo 150 commenti alla settimana. Abbiamo deciso di impostare questi limiti per migliorare la qualità del dibattito. È necessario attenersi Termini e Condizioni di utilizzo del sito (in particolare punti 3 e 5): evitare gli insulti, le accuse senza fondamento e mantenersi in tema con la discussione. I commenti saranno pubblicati dopo essere stati letti e approvati, ad eccezione di quelli pubblicati dagli utenti in white list (vedere il punto 3 della nostra policy). Infine non è consentito accedere al servizio tramite account multipli. Vi preghiamo di segnalare eventuali problemi tecnici al nostro supporto tecnico La Redazione
Cronaca
Papa Francesco, dopo tre settimane un audio per i fedeli: “Grazie per le vostre preghiere”. Il bollettino: “È stabile”. Il prossimo sarà sabato
Politica
Vertice Ue, veto di Orban su sostegno a Kiev. Zelensky: martedì summit tra i “volenterosi”. Meloni: “Riarmo? Termine non chiaro. No all’uso dei fondi di coesione”
Mondo
‘In Ucraina è guerra per procura’: a dirlo è il segretario di Stato Usa Marco Rubio. E il Cremlino plaude
(Adnkronos) - Stefano Conti è un uomo libero. L'Adnkronos può rivelare che al processo a Panama City sono cadute tutte le accuse. Raggiunto al telefono, Andrea Di Giuseppe, il parlamentare di Fratelli d'Italia eletto nella Circoscrizione Centro e Nord America, festeggia il risultato raggiunto dopo oltre due anni: "Dieci minuti fa ho parlato con il padre, si è commosso alla notizia che Stefano era finalmente stato prosciolto. Ha passato oltre 400 giorni in una delle peggiori galere del mondo, un luogo che non si riesce neanche a immaginare, e senza nessuna condanna, ma solo per una carcerazione preventiva in attesa di un processo che sembrava non arrivare mai. Ma insieme alla Farnesina e all'ambasciata, ho fatto di tutto per fargli ridurre la misura cautelare e farlo stare in una condizione meno disumana. L'anno scorso siamo riusciti a fargli avere i domiciliari, oggi la notizia più bella. Una grande vittoria per il nostro Paese".
Stefano Conti è un trader brianzolo di 40 anni, che per oltre due anni è stato accusato di tratta di esseri umani a scopo sessuale. Rischiava una condanna fino a 30 anni di reclusione, nonostante le presunte vittime avessero ritrattato le accuse, sostenendo di aver subito pressioni dalla polizia panamense.
Conti ha anche pubblicato un libro intitolato 'Ora parlo io: 423 giorni nell'inferno di Panama', in cui racconta la sua esperienza nel carcere panamense e ribadisce la sua innocenza. Il libro è uscito a dicembre scorso, in attesa dell'inizio del processo.
Andrea Di Giuseppe ha partecipato alle udienze preliminari, "non per influire sul merito della vicenda", spiega all'Adnkronos, ma per fargli avere il giusto processo che qualunque essere umano merita. Ho coinvolto la comunità italiana, ho parlato con i politici panamensi, sono stato accanto a lui davanti al giudice, per far capire al sistema giudiziario che quell'uomo non era solo, ma aveva accanto a sé il suo Paese”.
Conti "rimarrà ancora a Panama fino al 4 aprile, per motivi burocratici, ma appena avrà tutti i documenti in ordine potrà tornare in Italia", aggiunge il deputato italiano. Che non ha finito quella che è diventata una sorta di missione. "Dopo aver aiutato a liberare i due italiani in Venezuela, e dopo il più famoso caso di Chico Forti, il prossimo per cui mi impegnerò è l'ingegner Maurizio Cocco, rinchiuso in Costa d’Avorio da oltre due anni. Ne sentirete parlare presto". Sì perché gli italiani rinchiusi all'estero sono circa duemila, "e molti di questi sono in stato di carcerazione preventiva. Dei conti di Montecristo dimenticati da tutti. Ma ora il nostro governo, grazie anche all'azione dei sottosegretari agli Esteri Silli e Cirielli, e ovviamente all'attivismo della premier Meloni, sta finalmente affrontando questi casi. Non sono più dei fantasmi, ma dei nostri connazionali che devono poter avere tutta l'assistenza legale, politica e umana che possiamo dargli. È solo l'inizio. L'Italia sta contando e pesando di più nel mondo", conclude Di Giuseppe. (Di Giorgio Rutelli)
(Adnkronos) - Stefano Conti è un uomo libero. L'Adnkronos può rivelare che al processo a Panama City sono cadute tutte le accuse. Raggiunto al telefono, Andrea Di Giuseppe, il parlamentare di Fratelli d'Italia eletto nella Circoscrizione Centro e Nord America, festeggia il risultato raggiunto dopo oltre due anni: "Dieci minuti fa ho parlato con il padre, si è commosso alla notizia che Stefano era finalmente stato prosciolto. Ha passato oltre 400 giorni in una delle peggiori galere del mondo, un luogo che non si riesce neanche a immaginare, e senza nessuna condanna, ma solo per una carcerazione preventiva in attesa di un processo che sembrava non arrivare mai. Ma insieme alla Farnesina e all'ambasciata, ho fatto di tutto per fargli ridurre la misura cautelare e farlo stare in una condizione meno disumana. L'anno scorso siamo riusciti a fargli avere i domiciliari, oggi la notizia più bella. Una grande vittoria per il nostro Paese".
Stefano Conti è un trader brianzolo di 40 anni, che per oltre due anni è stato accusato di tratta di esseri umani a scopo sessuale. Rischiava una condanna fino a 30 anni di reclusione, nonostante le presunte vittime avessero ritrattato le accuse, sostenendo di aver subito pressioni dalla polizia panamense.
Conti ha anche pubblicato un libro intitolato 'Ora parlo io: 423 giorni nell'inferno di Panama', in cui racconta la sua esperienza nel carcere panamense e ribadisce la sua innocenza. Il libro è uscito a dicembre scorso, in attesa dell'inizio del processo.
Andrea Di Giuseppe ha partecipato alle udienze preliminari, "non per influire sul merito della vicenda", spiega all'Adnkronos, ma per fargli avere il giusto processo che qualunque essere umano merita. Ho coinvolto la comunità italiana, ho parlato con i politici panamensi, sono stato accanto a lui davanti al giudice, per far capire al sistema giudiziario che quell'uomo non era solo, ma aveva accanto a sé il suo Paese”.
Conti "rimarrà ancora a Panama fino al 4 aprile, per motivi burocratici, ma appena avrà tutti i documenti in ordine potrà tornare in Italia", aggiunge il deputato italiano. Che non ha finito quella che è diventata una sorta di missione. "Dopo aver aiutato a liberare i due italiani in Venezuela, e dopo il più famoso caso di Chico Forti, il prossimo per cui mi impegnerò è l'ingegner Maurizio Cocco, rinchiuso in Costa d’Avorio da oltre due anni. Ne sentirete parlare presto". Sì perché gli italiani rinchiusi all'estero sono circa duemila, "e molti di questi sono in stato di carcerazione preventiva. Dei conti di Montecristo dimenticati da tutti. Ma ora il nostro governo, grazie anche all'azione dei sottosegretari agli Esteri Silli e Cirielli, e ovviamente all'attivismo della premier Meloni, sta finalmente affrontando questi casi. Non sono più dei fantasmi, ma dei nostri connazionali che devono poter avere tutta l'assistenza legale, politica e umana che possiamo dargli. È solo l'inizio. L'Italia sta contando e pesando di più nel mondo", conclude Di Giuseppe. (Di Giorgio Rutelli)
Roma, 6 mar. (Adnkronos) - "Più che le conclusioni del Consiglio europeo sembrano un bollettino di guerra, con i nostri governanti che, in un clima di ubriacatura collettiva, programmano una spesa straordinaria di miliardi su miliardi per armi, missili e munizioni. E la premier Meloni cosa dice? 'Riarmo non è la parola adatta' per questo piano. Si preoccupa della forma e di come ingannare i cittadini. Ma i cittadini non sono stupidi! Giorgia Meloni come lo vuoi chiamare questo folle programma che, anziché offrire soluzioni ai bisogni concreti di famiglie e imprese, affossa l’Europa della giustizia e della civiltà giuridica per progettare l’Europa della guerra?". Lo scrive Giuseppe Conte sui social.
"I fatti sono chiari: dopo 2 anni e mezzo di spese, disastri e fallimenti in Ucraina anziché chiedere scusa agli italiani, Meloni ha chiesto a Von der Leyen di investire cifre folli in armi e spese militari dopo aver firmato sulla nostra testa a Bruxelles vincoli e tagli sugli investimenti che ci servono davvero su sanità, energia, carovita, industria e lavoro. Potremmo trovarci a spendere oltre 30 miliardi aggiuntivi sulle armi mentre ne mettiamo 3 scarsi sul carobollette".
"Stiamo vivendo pagine davvero buie per l’Europa. I nostri governanti, dopo avere fallito con la strategia dell’escalation militare con la Russia, non hanno la dignità di ravvedersi, anzi rilanciano la propaganda bellica. La conclusione è che il blu di una bandiera di pace scolora nel verde militare. Dai 209 miliardi che noi abbiamo riportato in Italia dall'Europa per aziende, lavoro, infrastrutture, scuole e asili nido, passiamo a montagne di soldi destinati alle armi".
Roma, 6 mar. (Adnkronos) - "Much appreciated". Lo scrive Elon Musk su X commentando un post in cui si riporta la posizione della Lega e di Matteo Salvini sul ddl Spazio e Starlink. Anche il referente in Italia del patron di Tesla, Andrea Stroppa, ringrazia via social Salvini: "Grazie al vice PdC Matteo Salvini per aver preso posizione pubblicamente".
Roma, 6 mar. (Adnkronos) - Gianfranco Librandi, presidente del movimento politico “L’Italia c’è”, ha smentito categoricamente le recenti affermazioni giornalistiche riguardanti una presunta “coalizione di volenterosi” per il finanziamento di Forza Italia. Librandi ha dichiarato: “Sono tutte fantasie del giornalista. Smentisco assolutamente di aver parlato di una coalizione di volenterosi che dovrebbero contribuire al finanziamento del partito”.
Roma, 6 mar. (Adnkronos) - "Il vergognoso oltraggio del Museo della Shoah di Roma è l'ennesimo episodio di un sentimento antisemita che purtroppo sta riaffiorando. È gravissima l'offesa alla comunità ebraica ed è gravissima l'offesa alla centralità della persona umana e all'amicizia tra i popoli. Compito di ognuno deve essere quello di prendere decisamente le distanze da questi vergognosi atti, purtroppo sempre più frequenti in ambienti della sinistra radicale infiltrata da estremisti islamici , che offendono la memoria storica e le vittime della Shoah. Esprimo la mia più sentita solidarietà all'intera Comunità ebraica con l'auspicio che tali autentici delinquenti razzisti antisemiti siano immediatamente assicurati alla giustizia ". Lo ha dichiarato Edmondo Cirielli, Vice Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.
Roma, 6 mar. (Adnkronos) - "Meloni ha perso un'occasione rispetto a due mesi fa quando si diceva che sarà il ponte tra l'America di Trump e l'Europa e invece Trump parla con Macron, con Starmer e lo farà con Merz. Meloni è rimasta un po' spiazzata. Le consiglio di non essere timida in Europa perchè se pensa di sistemare i dazi un tete a tete con Trump, quello la disintegra. Meloni deve stare con l'Europa e Schlein quando le dice di non stare nel mezzo tra America e Europa è perchè nel mezzo c'è l'Oceano e si affoga". Lo dice Matteo Renzi a Diritto e Rovescio su Rete4.