Poco prima della chiusura della “Supermostra” di Esselunga a Firenze, sono andato a visitarla con la famiglia. Non voglio liquidare la “Supermostra” perché un evento è interessante per i sentimenti e le riflessioni che suscita. Esselunga ha messo in scena un teatro degli oggetti, una Wunderkammer del tempo che fu letto attraverso gli scaffali dei suoi supermercati. E vedere il mondo spiegato secondo il doppio movimento della nostalgia e del packaging fa impressione.
Non perché non sia veritiero, ma al contrario proprio perché icasticamente mostra di che sostanza sono fatti i nostri sogni: prodotti, o meglio merci. “Supermostra” non dice il falso, dice che il vero è un momento del falso o ancora meglio che non c’è vita vera se non nella falsa. In questa vita falsa che è più vera del vero e che è la nostra vita degli ultimi decenni, in cui bisogna stare — per i più ottimisti — per portare a emersione le sue intime contraddizioni. Lo diceva Franco Fortini rispondendo a un questionario sull’industria culturale, notoriamente capovolgendo un dictum dell’Adorno di Minima moralia secondo cui “non c’è vita vera nella falsa”.
Quelle riflessioni, mentre attraverso “Supermostra”, mi fanno pensare alle tesi del Manifesto accelerazionista di Alex Williams e Nick Srnicek di recente pubblicato in italiano da Laterza. Come fare a rispondere al neoliberismo e al capitalismo, con il loro feticismo delle merci? In fondo neanche Marx pensava di sostituire questo alienante rapporto che sostituisce l’uomo e lo fa mediare dalle cose con un ritorno a una sorta di valore d’uso, come nelle società medievali. La merce, guardata più da vicino, “è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici”, dice Marx nel Capitale. Tuttavia l’immediatezza del rapporto tra le cose e le persone, per Marx, non è certo da rimpiangere, ché anzi egli la tratta come una forma immatura.
Da quando il Manifesto è stato pubblicato (era il 2013) è stato fonte di equivoci, come spiega Valerio Mattioli nella postfazione. L’accelerazionismo di Williams e Srnicek sostiene non che occorra portare il capitalismo al suo massimo sviluppo, come una macchina accelerata a tavoletta che dunque prima o poi si schianta, cede. Non si tratterebbe, commenteremmo, di vivificare l’eresia dei Carpocraziani secondo cui occorreva portare tutto il male a consumazione perché si giungesse al bene. Quel tipo di accelerazionismo era tipico di Nick Land: il capitale come “macchina intelligente che già porta al suo interno i semi della propria dissoluzione”.
Una politica accelerazionista dovrebbe, al contrario, risolvere il dilemma della “scomparsa del futuro” (una manna per l’Alt-Right fomentata da un deleuzismo tatcheriano), ripensando il rapporto tra sviluppo e politica. La sinistra dovrebbe, in altri termini, rifuggire la “retromania”: “la plateale nostalgia per i tempi andati mescolata al recupero di stili ed estetiche provenienti dal passato che è la cifra dell’immaginario popular” (ancora Mattioli). Pensare il ‘ritorno al futuro’, ma non nelle forme delle neoliberal fantasies dei tycoon della Silicon Valley.
Ecco, “Supermostra” è tutta dentro il paradigma dell’assenza di futuro. Serve a svelarci, come in uno specchio — e non è un caso che l’ultima tappa della mostra sia proprio una levigatissima stanza di specchi — chi noi siamo diventati. E pazienza se nel mondo di Bernardo Caprotti non c’è spazio per alcun conflitto. E se tutto è giocato sui memorabilia che ti fanno dare di gomito e ti fanno esclamare “ma quel telefono ce lo avevo anche io da bambino!”.
Io per esempio degli anni Settanta ricordo, oltre al telefono a rotella, anche il 1978 e gli estenuanti telegiornali su Aldo Moro, e quello schiaffo di mio padre quando a cinque anni dissi seccato “uffa, ma sempre con ‘sto Moro!”. Naturalmente tutte queste cose “Supermostra” non le dice perché le voglia dire, ma le suggerisce involontariamente a chi vada a vederla. Il visitatore si trova dentro un grande archivio della nostra vita attraverso le cose, nelle quali ognuno, passandoci davanti, mette un sentimento, un ricordo, un amore, un dispiacere. Ma alla fine tutti avevano quegli oggetti, tutti li riconoscono, tutti possono metterci dentro amori o dispiaceri. Una vita massificata formato standard. Eppure una vita falsa e per ciò stesso vera, in cui ognuno si sente speciale pur avendo gli stessi identici ricordi di colui che gli sta accanto coi lucciconi mentre rivede il macinino a manovella per tritare il ghiaccio, o i vecchi manuali delle Giovani Marmotte, oppure il Super8. Tutti con un grande futuro dietro le spalle.