C'è un nuovo inedito capitolo nella storia della morte del geometra romano che arriva dal processo ai militari dell'Arma accusati, a vario titolo, di omicidio preterintenzionale, falso e calunnia, grazie alle testimonianza di due colleghi
C’è un nuovo inedito capitolo nella storia della morte di Stefano Cucchi. Arriva dal processo ai cinque carabinieri accusati, a vario titolo, di omicidio preterintenzionale, falso e calunnia, grazie alle testimonianza di due militari. L’Arma era informata, forse preoccupata, della vicenda dell’arresto e la successiva morte del geometra romano arrestato per droga, tanto che, dopo il decesso e l’apertura dell’indagine, vennero chieste due relazioni su quanto accaduto e i due documenti, datati 26 ottobre 2009 (Cucchi era morto in ospedale il 22 ndr), vennero fatti modificare il giorno stesso, forse perché alcuni dettagli potevano creare problemi.
Relazione modificata su richiesta dei superiori
Nella prima relazione si legge che Cucchi, la mattina dopo l’arresto “riferiva di avere dei dolori al costato e tremore dovuto al freddo e di non poter camminare” tanto da dover “essere aiutato” dai carabinieri a salire le scale per andare in tribunale dove era fissata l’udienza di convalida. Dalla seconda versione, spariscono i dolori al costato e il fatto che il giovane non riuscisse a camminare il giorno dopo l’arresto: Cucchi, vi si legge, “era dolorante alle ossa sia per la temperatura freddo/umida che per la rigidità della tavola del letto”. Il documento viene redatto dal carabiniere Francesco Di Sano che, chiamato a testimoniare al processo, in merito a tali anomalie dichiara che gli fu chiesto di modificare la relazione dai superiori. Anomalie anche in altre due relazioni, quasi identiche, firmate sempre il 26 ottobre, dal piantone di Tor Sapienza Gianluca Colicchio: anche in questo caso, solo nella seconda relazione, che Colicchio dice di non aver mai redatto, i dolori di Cucchi vengono attribuiti alla “branda scomoda”.
Cinque carabinieri a processo, per procura fu “pestaggio”
Cinque carabinieri a processo Sono cinque i carabinieri coinvolti nel processo sulla morte del geometra romano in corso davanti alla prima Corte d’Assise del tribunale di Roma: Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro, Francesco Tedesco, rispondono di omicidio preterintenzionale. Tedesco risponde anche di falso nella compilazione del verbale di arresto di Cucchi e calunnia insieme al maresciallo Roberto Mandolini, all’epoca dei fatti a capo della stazione Appia, dove venne eseguito l’arresto. Vincenzo Nicolardi, anche lui carabiniere, è accusato di calunnia con gli altri due, nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria che vennero accusati nel corso della prima inchiesta sul caso.
Il pestaggio, per la procura di Roma, causò tra l’altro “una rovinosa caduta con impatto al suolo in regione sacrale” provocando sul giovane “lesioni personali che sarebbero state guaribili in almeno 180 giorni e in parte con esiti permanenti, ma che nel caso in specie, unitamente alla condotta omissiva dei sanitari che avevano in cura Cucchi presso la struttura protetta dell’ospedale Sandro Pertini, ne determinavano la morte”, il 22 ottobre del 2009. Nel procedimento sono parte civile, oltre ai familiari del giovane, il Comune di Roma, Cittadinanzattiva e gli agenti della penitenziaria accusati nella prima inchiesta sulla morte del giovane. Nell’udienza del 20 marzo un testimone, Luigi Lainà, aveva ribadito un racconto parzialmente noto, ma ripetuto in una aula di Tribunale davanti ai giudici della corte d’Assise: “Quando ho visto Stefano la prima volta stava ‘acciaccato’, era gonfio come una zampogna, aveva ematomi sul viso e sugli zigomi, era viola, perdeva sangue da un orecchio, non parlava bene e non riusciva neanche a deglutire. Quando gli ho visto la schiena sembrava uno scheletro, un cane bastonato, roba che neanche ad Auschwitz”.
La storia: dall’arresto alle prime indagini
Stefano Cucchi venne arrestato 15 ottobre del 2009 in via Lemonia, a Roma, a ridosso del parco degli Acquedotti, perché sorpreso con 28 grammi di hashish e qualche grammo di cocaina. Secondo l’accusa, il giovane fu colpito la notte del suo arresto, dai tre carabinieri imputati con “schiaffi, pugni e calci”. Quella notte, i carabinieri lo accompagnarono a casa per perquisire la sua stanza. Non trovando altra droga lo riportano in caserma con loro e lo rinchiudono in una cella di sicurezza della caserma Appio-Claudio. La mattina successiva, nell’udienza del processo per direttissima, Stefano ha difficoltà a camminare e parlare e mostra evidenti ematomi agli occhi e al volto che non erano presenti la sera prima. Il giudice, nonostante le condizioni di salute del giovane, convalida l’arresto e fissa una nuova udienza. Nell’attesa, Stefano Cucchi viene rinchiuso nel carcere di Regina Coeli.
Le sue condizioni di salute peggiorano rapidamente e, il 17, viene trasportato all’ospedale Fatebenefratelli per essere visitato. Il referto è chiaro: lesioni ed ecchimosi alle gambe e al viso, frattura della mascella, emorragia alla vescica, lesioni al torace e due fratture alla colonna vertebrale. Viene chiesto il ricovero, ma Stefano rifiuta insistentemente e viene rimandato in carcere per poi essere ricoverato di nuovo, presso l’ospedale Sandro Pertini, dove muore il 22 ottobre. Solo a questo punto, dopo vani tentativi i suoi familiari riescono a ottenere l’autorizzazione per vederlo: il corpo pesa meno di 40 chili e presenta evidenti segni di percosse. Cominciano le indagini. Allo stato gli unici imputati definitivamente assolti sono gli agenti della polizia Penitenziaria. La Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza sui medici ma ormai il reato contestato è prescritto.