Chiunque si occupa di cannabis ha la quasi certezza che il consumo nel corso degli ultimi venti anni abbia preso la strada dell’assimilazione alle leggi che regolano qualsiasi mercato di prodotti di ampia diffusione come potrebbe essere il mercato della moda o delle biciclette. A nulla sono valsi gli sforzi degli Stati che hanno cercato di terrorizzare il consumatore di cannabis o chi vi approcciava da neofita alimentando curiose quanto false leggende metropolitane che avrebbero voluto il fumatore passare a droghe ben più pericolose se non incamminarsi verso un destino psicotico che la marjiuana avrebbe agevolato e slatentizzato.

Gli Stati Uniti, prima di capitolare avviando una progressiva legalizzazione, in primis terapeutica e successivamente per scopi ricreativi, hanno per decenni creduto che il terrorismo psicologico e una repressione poliziesca e giudiziaria degna di ben altre battaglie, fosse l’unico modo per arginare la diffusione addivenendo a più miti consigli quando realizzarono che tutti gli studi li davano tra i paesi con il maggior numero di consumatori in termini relativi.

Non avevano fatto i conti, gli Stati Uniti, con i modelli economici di cui sono fieri ed orgogliosi testimoni proponendo il capitalismo quale unico argine a forme più o meno occulte di socialismo o di comunismo travestito da statalismo. Ed il capitale nelle sue più o meno sublimali forme di promozione di benessere diffuso, di imposizione di falsi bisogni, di individualismo convinto, ha finito con il fare carta straccia dei capisaldi morali di chi predica una società senza droghe ed a maggiore ragione senza cannabis.

In Italia, paese che ama importare i costumi americani con circa venti anni di differenza, la scelta della legalizzazione della cannabis deve essere sembrata troppo ardita e precoce: ma non volendo perdere un possibile mercato a causa di qualche forza politica ottusa e di molti rappresentanti parlamentari indifferenti, ed essendo maestri nel affrontare un argomento con mille distinguo, si è pensato, con un certo successo, di introdurre una cannabis a basso principio attivo al fine di mantenere alta l’attenzione dei cittadini rispetto a quello che quando e se accadrà, ci sembrerà essere un passaggio epocale: la legalizzazione vera di una sostanza il cui principio attivo produce una alterazione a causa delle sue proprietà psicotrope.

Quindi vai con la cannabis Light, venduta liberamente nei tabaccai con un riscontro commerciale ottimo, posto che la richiesta è alta.

Il principio attivo è molto basso e quindi non altera e non comporta rischi. Quindi, apparentemente, il motivo per acquistarla sarebbe dovuto venire meno posto che tale prodotto non incide su alcun nostro sentire o comportamento. Solitamente ci si fa una canna per rilassarsi o per ridere insieme ad amici o per alterarsi facendo diventare anche un normale pomeriggio, un qualche cosa di epico: alterando la nostra percezione, appunto. In assenza di questo processo allora cosa dobbiamo desumere?

Semplicemente che oltre ad una azione di marketing tesa a tenere alta l’attenzione per la sorella maggiore (la cannabis vera) il consumo di tali sostanze oggi risponde in tutto e per tutto alle regole del mercato. Non vi è alcun elemento trasgressivo che connota il comprare un grammo di cannabis rispetto al comprare un etto di caffè o un maglione di cotone e non vi è nessuna considerazione moralistica rispetto all’acquirente, ai suoi gusti, alle sue abitudini perché quell’acquirente non è un cittadino alternativo o un individuo particolare, ma un semplice consumatore di oggetti, merce, cibo, viaggi servizi a cui da pochi giorni si aggiunge anche una sostanza il cui solo nome ed il relativo consumo, fino a qualche decennio fa, ti connotava in termini ipernegativi etichettandoti come deviante, out law, criminale.

Il processo per cui il modello capitalistico riesca ad uniformare nella grande famiglia dei consumatori (il termine cittadino diventa secondario essendo l’appellativo di consumatore quello molto più qualificante per chi vende un prodotto) merci e prodotti che fino agli anni 70 appartenevano a gruppi e culture devianti, tramutando tali condotte in comportamenti “cool” e quindi vincenti è un processo già attuato con i tatuaggi. Il valore identitario di tatuaggi e cannabis, un tempo, ti relegava ai margini della società e ti etichettava come un perdente o appartenente a sub culture marginali. Diamo un’occhiata in giro per capire come il tatuaggio oggi sia praticato da elìte o comunque categorie incluse e attive nei processi economici occidentali. Analogo ragionamento lo si può estendere alla cannabis, oggi ancora non completamente sdoganata e, temporaneamente, sostituita da una merce succedanea ma innocua. Tempo al tempo ed anche la cannabis, oggi apriporta per le condanne penali, diventerà oggetto di consumo portando a termine un percorso per cui il fumatore sarà la figura più lontana dai “losers” di sotterranea memoria. A loro si contrapporranno i vincenti, nella vita e nel lavoro.

La trasformazione della sostanza va di pari passi alla trasformazione antropologica delle nostre società: perdente sarà chi non consuma, non acquista, non partecipa al rito collettivo della inclusione sociale tramite credit card. La povertà, o il rifiuto di partecipare al rito orgiastico dello shopping, risulteranno gli indicatori di persone ai margini ed escluse dal consesso sociale.

A questo punto ha ben poca importanza che sia una merce considerata fino a pochi anni fa merce da drogati senza alcuna speranza di farsi strada nella vita. L’importante è che si venda: anche se ha perso il suo significato originario sia in termini di ritualità e liturgie nell’uso, sia in termini di ribellione ad un sistema preconfezionato quale componente socio culturale che ne legittimava la coltivazione e il fumarsela.

Siamo tutti consumatori, big spender, voraci predatori di merci di cui abbiamo smarrito il fine originario. A tal punto voraci da comprare una sostanza priva delle componenti che ne giustificavano l’acquisto. Mi sembra estremamente significativo.

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