di Paolo Bagnoli
Nell’ormai inflazionata pubblicistica sulle sorti del Pd dopo la gelata elettorale ricevuta si intrecciano, peraltro senza rilevanti livelli di maturità riflessiva, sostanzialmente due temi: le ragioni della crisi della sinistra e, molto più tiepidamente, l’assenza di un partito socialista proprio nel momento in cui ce ne sarebbe più bisogno. Per quanto sia la Repubblica che L’Espresso abbiamo avuto il merito di lanciare la tematica, ci sembra, tuttavia che, fino a oggi, gli interventi scaldino uno stanco brodo incapace di produrre alcun sapore visto che è un errore culturale, talora sfidante l’onestà intellettuale, definire la crisi del Pd come la crisi della sinistra per il semplice motivo che il Pd non è mai stato di sinistra. Esso, anzi, è nato con volontà ultronica: ossia andare oltre la sinistra oramai data per morta, al pari del socialismo, in tutta l’Europa.
Si tratta di un elemento non piccolo fuorviante la discussione che si vuole avviare. Il paniere delle delusioni raccolte non sintetizza una critica politica degna di questo nome; sono delusioni vere, ma ciò non è sufficiente per quel salto qualitativo che sarebbe necessario, ma che non vi può essere poiché il Pd è, ed è sempre stato, altro rispetto a ciò che storicamente si intende per sinistra. Quando, poi, si cerca di intrecciarlo con l’altro problema, il tutto diviene ancor più confuso essendo lapalissiano che non si può parlare della necessità – che c’è ed è bruciante – di un partito socialista se non si parla di socialismo e del suo portato storico, culturale e politico.
Potremmo aggiungere che per creare un luogo socialista occorrono in primo luogo i socialisti e nessuno degli interpellati, sempre a ora, si dichiara tale: infatti, non lo è. Non solo, ma rilanciare l’ipotesi di costituzione di un soggetto socialista non può essere solo il richiamo nostalgico a esperienze passate; non significa, in altre parole, cercare di far rinascere il Psi, ma certo non si può prescindere da una riflessione seria su cosa ha rappresentato il Psi nella storia d’Italia evitando di soffermarsi più di quanto è dovuto sulla stagione craxiana e sulla sua amara fine. Con il Psi, infatti, se ne è andato quello che, al netto di tutte le esperienze vissute, è stato il vero e proprio partito della democrazia italiana. Il fatto, comunque, che da qualche parte – se pur timidamente – il problema venga posto è già significativo; è un segnale che, però, va colto nella sua specificità e non come succedaneo alla crisi del Pd che è questione di altra e diversa specificità.
La storia della nostra lunga transizione ci dimostra che non c’è stata, né tantomeno c’è adesso, una forza capace di contrastare non solo le tendenze barbariche del capitalismo globalizzato, ma nemmeno la decadenza della democrazia politica democratica, altrimenti non ci troveremmo di fronte allo spettacolo odierno; uno spettacolo inquietante considerato che la scena è padroneggiata da una doppia trazione populistico-demagogica. Ossia, di un tarlo che sfarina dal di dentro lo Stato e la società, l’ordine politico e la coesione sociale in una complessiva decoazione del sistema repubblicano.
Il rischio – visti anche i tentativi maldestri di cambiare la Costituzione – è di marciare anche noi verso quella che l’ideologo di Viktor Orban, Zoltàn Kovacs ha teorizzato come “democrazia illiberale”; per Kovacs, infatti, “la democrazia non è per forza liberale”. E’ un qualcosa su cui riflettere seriamente: se la democrazia non è la forma politica della libertà e delle libertà, cos’è? Cosa può essere? Un qualcosa che si chiama sempre democrazia di cui si nega, però, ogni nozione sociale e, quindi della società quale campo autonomo delle libertà e soggetto proprio della sovranità popolare; si spaccia, cioè, per democrazia in sistema affidatario confliggente con la concezione dello Stato di diritto cui è strettamente connessa.
L’Ungheria, a veder bene, non è poi tanto lontana poiché in Italia i 5Stelle, sostenendo che la democrazia rappresentativa è superata, si affidano addirittura ad una “piattaforma online” e il loro uomo di punta, invece di chiamarlo leader, preferiscono appellarlo “capo”, vale a dire comandante supremo cui, tramite la piattaforma, viene chiesto di affidarsi sulle ceneri, appunto, della democrazia rappresentativa.
Basterebbe solo questo motivo per dare ragione del perché occorra un partito della democrazia fondato sui principi della giustizia sociale e delle libertà politiche e civili, cioè un partito socialista. Ma se ciò ha una validità su un piano generale lo ha, forse di più, su quello del “sociale” nel momento in cui le diseguaglianze aumentano e la povertà si incrementa in un processo di disgregante atomizzazione sociale che lacera l’idea stessa di solidarietà – un’idea che non ha niente a che vedere con le pur non irrilevanti forme di carità in essere – poiché essa implica porre al centro della condizione collettiva l’uomo e non stancarsi nel tirare avanti quelli che nascono indietro. E lo ha, ancora, per rilanciare il valore della lotta e della mobilitazione sociale per non rimanere schiacciati dalla potenza dell’economia che privatisticamente insegue la propria ricchezza ricattando chi non può opporre niente e talora, prima del vivere, ha il problema del sopravvivere.
Ecco perché servirebbe una forza socialista capace di compattare un blocco sociale e culturale ampio, quale centro promotore di un campo largo di una sinistra non solo socialista, poiché la lotta per la libertà e la giustizia è una battaglia di civiltà. Ed è di civiltà che il mondo di oggi ha principalmente bisogno.