L’hanno definito il processo in cui Stato ha messo sul banco degli imputati se stesso. Adesso dovrà decidere se assolversi o meno. Sono entrati in camera di consiglio i giudici della corte d’Assise di Palermo che celebrano il processo sulla cosiddetta Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Un dibattimento comin ciato quasi cinque anni fa, con più di duecento udienze, decine e decine di testimoni, 88 anni di carcere chiesti per i nove imputati e una ricostruzione dell’accusa che ripercorre la fine della Prima Repubblica, riscrive la nascita della Seconda e arriva a sentenza proprio quando sembra stia per nascere la Terza. Duemila i giorni trascorsi dalla prima udienza preliminare, mentre non è dato sapere quanto tempo impiegheranno i magistrati guidati dal presidente Alfredo Montalto per decidere se i boss mafiosi sedettero o meno al tavolo delle Istituzioni. Di sicuro c’è solo che la sentenza emessa nell’aula bunker del carcere Pagliarelli – dopo che gran parte del processo si è svolto “nell’astronave verde” dell’Ucciardone – sarà a storica. In un senso o nell’altro.
Lo Stato che processa se stesso – Perché quella sulla Trattativa è un’inchiesta che ha spaccato in due l’opinione pubblica. E non poteva essere altrimenti visto che ha l’ambizione di ricostruire un segmento fondamentale della recente storia italiana. Adesso, dunque, bisognerà solo aspettare. I fatti e le interpretazioni dalla procura sono da considerarsi reato o no? Il rapporto di forza e l’eventuale dialogo tra le Istituzioni di questo Paese e Cosa nostra è sanzionabile utilizzando il codice penale o deve rimanere soltanto un fatto storico? Lo Stato, in definitiva, può davvero processare se stesso? Una decisione delicatissima visto che l’indagine dei pm Vittorio Teresi, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia è stata lunga e complessa: si è spinta fino alla fine degli anni ’70, ha attraversato la fine della Guerra fredda, la crisi dei rapporti tra la mafia e la vecchia classe politica italiana, il biennio stragista che ha destabilizzato il Paese, il nuovo momento di pax tra Stato e cosche. “Hanno detto che ci siamo mossi per finalità eversive e nessuno ci ha difeso. Abbiamo cercato solo la verità”, sono state le parole scelte dal pm Di Matteo per chiudere la sua requisitoria. E in effetti numerosi sono stati gli attacchi lanciati nei confronti della pubblica accusa già in fase d’indagine preliminare. Il picco massimo si è registrato forse proprio nel 2012 quando per quattro telefonate registrate tra Nicola Mancino e Giorgio Napolitano, l’allora presidente della Repubblica ha deciso di sollevare un conflitto d’attribuzione di poteri davanti alla corte Costituzionale. La Consulta ha ordinato in tempi record la distruzione di quelle intercettazioni, infiammando l’inizio del processo che all’epoca veniva considerato alla stregua di quello a Giulio Andreotti. Almeno in termini di rilevanza mediatica.
Un reato difficile da dimostrare – Ora che i giudici sono in camera di consiglio, però, la contrapposizione tra il Colle e l’ufficio inquirente siciliano sembra appartenere a un’altra epoca. Complici anche i momenti di tensione istituzionale, il processo si è infatti sviluppato con un’attenzione giornalistica che si è via via affievolita. Anche perché nel frattempo ha perso il suo inquirente principale – cioè Antonio Ingroia, che ha lasciato la magistratura per la politica – e due dei suoi imputati più importanti: i superboss di Cosa nostra Totò Riina e Bernardo Provenzano, deceduti tra il 2016 e il 2017. Non ci sarà, nel bunker del Pagliarelli, neanche l’ex ministro Calogero Mannino, che ha scelto il rito abbreviato e si è già visto riconoscere l’assoluzione in primo grado. È accusato di minaccia e violenza a corpo politico dello Stato: una fattispecie che gli imputati avrebbero commesso intimidendo il governo per ottenere l’ammorbidimento della lotta a Cosa nostra in cambio della fine delle stragi. E della cancellazione della condanna a morte emessa da Riina per alcuni politici. Quel reato disciplinato dall’articolo 338 del codice, però, secondo molti osservatori è difficile da dimostrare.
Le richieste di pena per Bagarella e co. – Evidentemente non secondo i pm, che per minaccia e violenza a corpo politico dello Stato hanno chiesto alla corte di condannare a 16 anni di carcere il boss Leoluca Bagarella. Il cognato di Totò Riina è l’uomo che guidò i corleonesi dopo l’arresto del capo dei capi, il 15 gennaio del 1993. C’è Bagarella ai vertici di Cosa nostra quando bombe e stragi escono per la prima volta dalla Sicilia e colpiscono Roma, Firenze e Milano. È Bagarella che a un certo punto ispira la nascita di Sicilia Libera, il movimento che doveva rappresentare le istanze dei mafiosi nel mondo politico. Ed è sempre il padrino corleonese che poi dirotta il sostegno di Cosa nostra sulla neonata Forza Italia. Dodici gli anni di carcere chiesti per Antonino Cinà, il medico fedelissimo di Riina, accusato di aver consegnato a Massimo Ciancimino il papello, cioè la lista con le richieste avanzate dalla mafia per smetterla di seminare morti. Ciancimino junior avrebbe consegnato poi quel foglio al padre, don Vito, l’uomo agganciato dai carabinieri nel giugno del 1992 – dopo l’omicidio di Giovanni Falcone – con l’obiettivo di avere un’interlocuzione con la Cupola e mettere la parola fine ai botti al tritolo. Che invece continuarono e uccisero prima Paolo Borsellino e poi alcuni civili tra Firenze e Milano. Per quel tentativo di dialogo con le cosche sono imputati tre ex ufficiali dell’Arma: l’ex capo del Ros Antonio Subranni, per il quale l’accusa ha chiesto 12 anni, il suo vice del tempo Mario Mori, su cui pende una richiesta di condanna pari a 15 anni, e l’ex colonnello Giuseppe De Donno, che invece i pm vorrebbero condannare a 10 anni. L’accusa ha inoltre chiesto di non procedere a causa dell’intervenuta prescrizione nei confronti di Giovanni Brusca, il boia della strage di Capaci che partecipò ai vari summit in cui si organizzò l’assalto di Cosa nostra alla Stato.
Dell’Utri e il patto con B.– Colpevole sarebbe anche Marcello Dell’Utri, l’ex senatore di Forza Italia che sconta una condanna a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa: per lui sono stati chiesti altri 12 anni di carcere. Braccio destro di Silvio Berlusconi, fondatore di Forza Italia, è Dell’Utri – secondo l’accusa – l’uomo che chiude il nuovo patto con i boss ottenendo sostengo per il suo neonato partito politico. “Alla fine del 1993 Marcello Dell’Utri si è reso disponibile a veicolare il messaggio intimidatorio per conto di Cosa nostra, cioè fermare le bombe in cambio di norme per l’attenuazione del regime carcerario. Ciò è avvenuto quando un nuovo governo si era appena formato, nel marzo del 1994, con la nomina di Silvio Berlusconi alla carica di presidente del consiglio”, hanno sostenuto i magistrati alla fine della requisitoria. E ancora: “Risulta provato che gli incontri tra esponenti mafiosi e Marcello Dell’Utri siano stati plurimi e ripetuti nel tempo, da collocare sia prima delle elezioni del ’94 che dopo le politiche. Nel corso di questi incontri sia Graviano che Mangano hanno sollecitato Dell’Utri a intervenire a favore di Cosa nostra. E Dell’Utri non si è sottratto: si è fatto interprete degli interessi di Cosa nostra“.
Mancino e il Romanzo Quirinale – Accusato di falsa testimonianza è, invece, Nicola Mancino, ex ministro dell’Interno, sul quale pende una richiesta di condanna a sei anni di reclusione. È stato l’ultimo a intervenire davanti alla corte d’Assise per rendere dichiarazioni spontanee: “Ho sofferto per tutto questo periodo e soffro ancora pur essendo consapevole di avere sempre detto la verità. Non ho mai commesso il reato di falsa testimonianza”. I pm, infatti, lo hanno messo sotto inchiesta perché ha negato di aver saputo dall’allora guardasigilli Claudio Martelli di contatti “anomali” tra i carabinieri del Ros e Ciancimino. Contatti che, secondo la procura, avrebbero costituito il primo atto formale della stessa Trattativa. Finito coinvolto nell’inchiesta Mancino diventa poi il protagonista del Romanzo Quirinale: è lui l’uomo che trascina nell’indagine il Colle, con le telefonate a Loris D’Ambrosio, consigliere giuridico di Napolitano. “A posteriori – ha detto l’ex ministro – penso che sarebbe stato preferibile non telefonare a D’Ambrosio. Ero preoccupato, eravamo in piena bufera giornalistica. Ma in quelle telefonate non c’è traccia di interferenze o di richieste di inferenze nei confronti dei magistrati palermitani”. Per Mancino, ma anche per tutti gli altri imputati, gli avvocati difensori hanno chiesto l’assoluzione.
Ciancimino e i punti deboli – Cinque anni di carcere è poi la richiesta pena avanzata per Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo, accusato di calunnia e concorso esterno, che però si sarebbe prescritto. È allo stesso tempo uno dei testimoni principali dell’inchiesta, che ha dato probabilmente un forte impulso all’originaria attività investigativa, ma anche il principale punto debole del processo. Dopo una condanna per detenzione di esplosivo si è visto revocare l’indulto concessogli dopo un precedente verdetto di colpevolezza per riciclaggio: attualmente è quindi detenuto. In più è stato condannato due volte per calunnia in primo grado. Ha preso tre anni e mezzo per aver inventato le minacce dell’agente dell’Aisi Rosario Piraino. E sei anni per aver accusato l’ex funzionario del Sisde Lorenzo Narracci di essere stato il tramite tra il padre Vito, il boss Provenzano e il fantomatico signor Franco/Carlo, sempre indicato da Ciancimino junior come demiurgo di ogni interlocuzione tra Stato e mafia, ma mai individuato. A pesare sulle richieste della pubblica accusa, poi, ci sono le sentenze di assoluzione che incrociano il procedimento in corso: quella di primo grado per Mannino e quella ormai definitiva per Mori, accusato della mancata cattura di Provenzano, localizzato in un casolare di Mezzojuso nel 1995.
I punti a favore – I pm, però, possono anche vantare altri verdetti, questa volta a favore della loro ricostruzione. Come quella dei giudici di Firenze per la strage di via dei Georgofili, che nel 2012 hanno scritto: “Una trattativa indubbiamente ci fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un do ut des. L’iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia”. O come quella del gip di Caltanissetta dell’anno dopo, che a proposito dell’ultima inchiesta sulla strage di via d’Amelio, dice: “Deve ritenersi un dato acquisito quello secondo cui a partire dai primi giorni del mese di giugno del 1992 fu avviata la cosiddetta trattativa tra appartenenti alle istituzioni e l’organizzazione criminale Cosa nostra”. In corso nel capoluogo fiorentino c’è poi l’indagine su Berlusconi e Dell’Utri per le stragi del 1993, riaperta dopo le intercettazioni in carcere del boss Giuseppe Graviano. “Berlusca mi ha chiesto questa cortesia: per questo c’è stata l’urgenza. Lui voleva scendere: però in quel periodo c’erano i vecchi e lui mi ha detto ci vorrebbe una bella cosa”, avrebbe detto il mafioso di Brancaccio: anche quell’intercettazione è stata al centro di una battaglia giudiziaria tra accusa e difesa.
Il giorno in cui tutto cambiò – Al di là delle sentenze, delle ricostruzioni giudiziarie, dell’interpretazione di ogni singola fonte di prova, questa rimane comunque una storia di morti ammazzati. Di sangue, di ricatti, di tritolo e di fatti incontrovertibili. Che rimarranno tali qualunque sia la decisione della corte d’assise. Per esempio c’è una data ed è quella che cambia per sempre la storia d’Italia: il 30 gennaio del 1992. Quel giorno a Roma la corte di Cassazione conferma la sentenza del primo Maxiprocesso contro Cosa nostra istruito da Falcone e Borsellino. Per la prima volta, nonostante le rassicurazioni dei politici, i boss mafiosi vengono condannati all’ergastolo. È il “fine pena mai” lo spettro che scatena la furia di Riina, capo dei capi di un’organizzazione criminale all’epoca titolare di un’enorme potenza di fuoco. Già dalla fine del 1991 il boss corleonese aveva cominciato a riunire periodicamente i suoi in un casolare in provincia di Enna per dettare la linea: in caso di pronuncia sfavorevole bisognava “pulirsi i piedi“. Bisognava, cioè, massacrare tutti quei politici che non avevano rispettato i patti. Il primo è Salvo Lima: la sua chioma bianca riversa nel sangue di Mondello il 12 marzo del 1992 è l’atto numero zero della guerra allo Stato. Ma è anche un messaggio diretto ad Andreotti nel giorno in cui iniziava la campagna elettorale per le politiche di aprile. Giovanni Falcone capisce subito cosa sta succedendo. “Il rapporto si è invertito: ora è la mafia che vuole comandare. E se la politica non obbedisce, la mafia si apre la strada da sola”, scrive su La Stampa, mentre a Roma è già arrivato il commando di morte per lui. Dovevano farlo fuori al ristorante, o magari mentre andava al Maurizio Costanzo Show. Ma poi da Palermo per i picciotti arriva il contrordine: si torna a casa.
La genesi e la fine delle stragi: il fattore B – “La genesi di tutto è quando si decise di non uccidere più Falcone a Roma con quelle modalità e si torna in Sicilia: lì cambia tutto e poi non c’è solo mafia”, ha detto il pentito Gaspare Spatuzza. Un uomo che di stragi ne ha compiute parecchie. L’ultima doveva essere all’inizio del 1994: un’autobomba imbottita di tritolo e tondini di ferro per massacrare i carabinieri del servizio d’ordine fuori dallo stadio Olimpico. A ordinargliela è il suo capo, Giuseppe Graviano, nello stesso incontro la bar Doney di Roma in cui gli fa il nome di Berlusconi (“quello di Canale 5”) e di Dell’Utri (“il nostro compaesano”), sottolineando che grazie a loro “si erano messi il Paese nelle mani”. Secondo Graviano, la strage all’Olimpico doveva essere “il colpo di grazia”: sarà sospesa per un guasto al telecomando del detonatore e poi definitivamente annullata. Il motivo? Nel frattempo, il 27 gennaio, i Graviano vengono arrestati. Meno di ventiquattro ore prima, invece, Berlusconi aveva ufficializzato il suo ingresso in politica. Da quel momento finiscono le stragi. All’improvviso, come per magia, Cosa nostra smette di mettere le bombe, di fare la guerra allo Stato, di destabilizzare il Paese. I boss e i picciotti – lo dicono diverse sentenze – si mettono a fare campagna elettorale per Forza Italia che poco dopo stravince le elezioni. È nata la Seconda Repubblica. Ed è nata affondando le sue radici nel sangue. Se sia solo una coincidenza o ci sia stato un motivo preciso è solo l’ennesimo interrogativo al quale può rispondere questo processo.
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