A maggio verrà distribuito A che punto è la città? Bologna dalle politiche di “buongoverno” al governo del marketing, un saggio a più mani curato dalla rivista “Gli asini” nata da Goffredo Fofi. Il libro, scritto da architetti, geografi, urbanisti, sociologi, intende ridimensionare la reputazione di Bologna come città laboratorio del “buongoverno”. Lo fa attraverso l’analisi delle retoriche che il partito di governo del Comune di Bologna ha partorito come reazione alle clamorose disfatte elettorali (il crollo dell’affluenza alle Regionali del 2014 e la flessione del Pd alle Comunali del 2016). Concetti quali “partecipazione” e “rigenerazione urbana” sono frutto di una politica astuta quanto rischiosa. Hanno come obiettivo quello di fare percepire alla cittadinanza di avere parte attiva nei processi decisionali della città e dare la sensazione che l’amministrazione riqualifichi strutture e territori degradati (o a volte fatti passare come tali).
In realtà, spiega il libro, i cittadini sono chiusi in recinti, presidiati in modo rigoroso, entro i quali è chiesto loro di esprimersi su questioni marginali rispetto a una politica già programmata e fondata su interessi che vedono coinvolti principalmente il mondo dell’edilizia e la grande distribuzione organizzata. La rigenerazione attuata del Comune di Bologna è più banalmente l’uso di suolo pubblico per costruire edifici sulla cui reale necessità a volte si nutrono numerosi dubbi.
Un caso esemplare indicato nel libro è quello dei Prati di Caprara. Quarantesette ettari di verde spontaneo nel cuore di Bologna confinanti con l’Ospedale Maggiore, un plesso scolastico per l’infanzia, orti comunali e residenze private. Un vero e proprio polmone che depura e climatizza la zona più trafficata e inquinata della città (dati Agenzia regionale per la prevenzione, l’ambiente e l’energia dell’Emilia Romagna-Arpae). Ex zona militare passata al demanio, viene indicata dal sindaco Merola dapprima come “un’enorme foresta di alberi, ma davvero selvatica, senza panchine o giochi per bambini: un bosco da lasciare in eredità a chi verrà dopo di noi”. Poi si cambia idea.
Viene disegnato il Piano operativo Comunale (POC) definito nella delibera n. 55481/2016 del Consiglio Comunale come strumento di “Rigenerazione di patrimoni pubblici” attuato per trasformare “le aree dismesse innescando e sostenendo processi di rigenerazione urbana”. In realtà si tratta nei fatti della lottizzazione dell’intera zona. E infatti il sindaco in un video del settembre 2017 parla di un complesso di edifici civili e commerciali, un vero e proprio nuovo quartiere di Bologna, destando grande sorpresa.
Il progetto viene presentato ai cittadini in una riunione pubblica e riceve numerose critiche. In questo caso la partecipazione dall’alto, quella che chiede semplicemente pollice retto o pollice verso, si inceppa. Il Comune procede col POC disinteressandosi di un comitato che raccoglie nel giro di pochi giorni più di 3000 firme contrarie al progetto, che impatterebbe negativamente sulla salute, sulla mobilità e sul piccolo commercio degli abitanti della zona.
Allo stato attuale si sta disboscando una fetta di foresta urbana per attuare le bonifiche da ordigni bellici che, se scoperti, costringerebbero in teoria a sgomberare per ragioni di sicurezza il contiguo Ospedale Maggiore. Perciò un gruppo nutrito di cittadini si è dato appuntamento (sabato 21 aprile alle 11) presso i Prati di Caprara per protestare contro le decisioni del Comune.
Nel capitolo del libro intitolato “Dalle campagne alle trasformazioni urbane” emerge che termini come la “città del cibo” siano definizioni frutto di un progetto basato su marchi e slogan a volte incomprensibili, di un “marketing territoriale” che spesso fallisce. È il caso del megaparco dell’alimentare F.I.Co. (la Fabbrica Italiana Contadina ideata dal tycoon Oscar Farinetti) che vede – si legge nel libro – un afflusso di persone molto al di sotto delle aspettative, autobus di collegamento quotidiano che circolano vuoti e ristoranti di chef stellati che tirano giù la serranda. E questo nonostante i forti investimenti da parte dei principali player della grande distribuzione organizzata emiliana con il contributo dell’Amministrazione Pubblica.
L’impressione, leggendo il libro, è che il “laboratorio del buongoverno” bolognese sia in realtà l’avamposto di una conciliazione fra idee progressiste e necessità neocapitaliste. Un contesto nel quale il consenso si raccoglie mutando linguaggio e argomentazioni a seconda ci si trovi in ambienti radical chic o qualunquisti. Nel quale l’antagonismo si può addomesticare attraverso le convenzioni fra Centri Sociali e Comune mentre si continua a privilegiare la nascita di grandi centri commerciali. In cui si confonde l’opinione dei cittadini attraverso termini anglofoni ad effetto e slogan pieni di immaginazione e ottimismo civico quando le decisioni principali vengono prese in precedenza ai vertici. E tutti vissero felici e contenti. Ma forse non per sempre.