L’Italia è un Paese bizzarro. È ben noto. Nel mondo siamo noti perché ci distinguiamo sempre con delle particolarità. Sempre “all’italiana”.

Nel campo della tutela dei diritti non dovrebbe essere così. Un diritto meritevole di tutela dovrebbe uscirne intonso. Invece non sempre accade. Infatti, se sei necessitato a rivolgerti al giudice per domandare tutela e poi la tua domanda viene accolta, puoi comunque trovarti nella singolare (ed aberrante) condizione di doverti pagare comunque le spese legali.

Ma com’è possibile? Eppure l’articolo 91 del codice di procedura civile (che avrebbe una valenza estesa anche ben oltre il solo processo civile, sino ai processi tributario e amministrativo) sancisce al primo comma che “Il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa”. E l’art. 92 c.p.c. recita poi che “se vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, il giudice può compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero”. Tale articolo è stato riformato tra il 2009 e il 2014 anche per contenere la discrezionalità del giudice nella compensazione.

Ora l’aspetto del combinato disposto spese legali – in pratica: il compenso dell’avvocato oltre agli oneri di legge (4% di previdenza e 22% Iva) alle spese che vanno al ministero delle Finanze, oltre eventualmente alle spese necessarie per le consulenze tecniche – può avere un peso notevole sul valore e sull’importanza della causa.

Si pensi a chi ottenga una sentenza favorevole con il riconoscimento di un credito o per un risarcimento per 20mila euro e poi si trovi a dover far fronte a spese legali (compresi gli oneri) e di consulenza tecnica per circa 10mila euro. E che debba dunque attingere dalle proprie risorse poiché (pur risultando vittorioso) il giudice ha comunque deciso di malamente compensare le spese. Il suo credito si dimezzerebbe immediatamente. Un vulnus insostenibile. Dovrebbe dunque costui impugnare la sentenza solo per la parte di compensazione delle spese legali, così dovendo affrontare un nuovo giudizio (col rischio peraltro di soccombervi) con la condanna alle spese. Una situazione kafkiana.

Eppure pochi sanno che sulla “condanna alle spese” si consuma la farsa maggiore nel nostro “stato di diritto”. Infatti non tutti sono uguali davanti alla legge come sancito dall’art. 3 della Costituzione: “Tutti i cittadini (…) sono uguali davanti alla legge”. Invero, dinanzi alle nostre Corti di giustizia (soprattutto Giudice amministrativo e Giudice tributario), quando la controparte è la pubblica amministrazione accade il seguente fenomeno paranormale: se sei un privato e soccombi vieni condannato a pagare le spese di lite e se invece vinci (e accade almeno nel 50% dei casi, il giudice compensa le spese). Come si suol dire, cornuto e mazziato. Un obbrobrio che viene consumato perché implicitamente (raramente anche esplicitamente) i giudici non vogliono aggravare il debito pubblico. Mentre i diritti dei privati, quelli si possono ben essere sviliti e mortificati.

Giova ricordare come i numeri siano poi impressionanti in Cassazione, posto che i contenziosi tributari e previdenziali sono ben oltre la metà. Tutto questo deprime la portata dell’art. 24 Cost., secondo cui “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”. Che non è una quisquilia ma un diritto fondamentale! Se avessimo un’avvocatura forte e unita questa sarebbe una delle battaglie più importanti da condurre.

Invece. Ora la fresca sorpresa: il Giudice delle leggi ha appena esteso i casi di compensazione. Con Corte Cost., 19 aprile 2018, n. 77 è stato statuito (relatore Giovanni Amoroso) che il giudice civile può compensare le spese di giudizio (parzialmente o per intero) non solo nelle ipotesi di “assoluta novità della questione trattata” o di “mutamento della giurisprudenza rispetto a questioni dirimenti” ma anche quando sussistono “altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni”.

Dunque si riamplia la discrezionalità dei giudici ed il perimetro della compensazione delle spese, rispetto alla riduzione effettuata dal legislatore nel 2014. Una tassatività quella allora introdotta che ora la Consulta ha ritenuto lesiva del principio di ragionevolezza e di uguaglianza, in quanto lascia fuori altre fattispecie riconducibili alla stessa ratio giustificativa. Ne consegue ora l’illegittimità costituzionale dell’art. 92 secondo comma del Codice di procedura civile “nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni”.

Pertanto potremmo dire alea iacta est! Dove per alea s’intende semanticamente proprio alea.

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