Uno scenario sconvolgente, se non drammatico, si prospetta per il nostro paese. E i nostri politici dormono o sono impegnati, in quadro politico incerto, nella personale e ben più interessata causa della conservazione dei propri privilegi. Così come avvenuto con la legge che ha introdotto nel nostro paese il bail in, i nostri rappresentanti politici, a Roma e a Bruxelles, stanno subendo passivamente l’imminente applicazione della legge n. 49 dell’8 aprile 2016 che ha riformato profondamente il sistema del credito cooperativo in Italia.
Urge una riflessione. Anzi più di una. Perché questa è una storia di tradimenti che va raccontata con profondità di analisi. Tenterò di farlo in queste settimane su questo blog.
Comincio col dire che la riforma è stata salutata da più parti come una manovra di necessario rinnovamento, addirittura presentata come una “autoriforma”, cioè voluta dalle stesse Banche di Credito Cooperativo e congegnata con la collaborazione delle loro federazioni rappresentative.
Bugia! Le cose stanno diversamente. Ma chi l’ha voluta? Perché è stata fatta? Quali nefaste conseguenze sta già comportando?
Non siamo solo di fronte a un vero e proprio stravolgimento del sistema delle piccole e medie banche ma in prospettiva questa riforma avrà severe conseguenze (negative) anche sul rapporto che le piccole e medie imprese hanno con il sistema bancario nonché sulle dinamiche sociali nei territori periferici: si tratta cioè di una vera e propria riforma di politica sociale, economica ed industriale, purtroppo.
In questa prima puntata facciamo un po’ di cronistoria.
Il sistema del credito cooperativo (circa 300 banche) si presentava a fine 2014 con i coefficienti patrimoniali – in media – più elevati del resto del sistema bancario, nonostante la profonda crisi economica avesse comportato l’aumento del flusso delle sofferenze (npl) per molte banche italiane. Ad ogni modo anche nel panorama complessivo di questi istituti non sono mancati i casi di cattiva gestione, di mal funzionamento, di sindrome della ricerca della dimensione sempre più grande, di errori anche gravi. Si stima che circa un terzo delle Bcc italiane sia considerato ad alto rischio e un altro quarto mediamente a rischio.
Ciò accadeva mentre gli strumenti di salvataggio delle banche applicati in Italia per oltre un secolo dalla Banca d’Italia erano stati disarticolati e gli interventi dei fondi interbancari di garanzia venivano additati come aiuti di Stato dalla Commissione Europea.
Ma cosa era successo nel frattempo in Europa?
Negli altri paesi europei dal 2008 al 2014 erano avvenuti numerosi e significativi casi di crisi di banche, dovuti non tanto all’andamento dell’economia reale (crediti deteriorati) ma a causa di investimenti in attività speculative (derivati e titoli tossici); negli altri paesi europei le banche sono state salvate con ingenti risorse pubbliche (solo in Germania oltre 260 miliardi di euro). Avvenuto ciò, è stata emanata la famigerata normativa che dal 2015 pone il salvataggio di una banca a carico anzitutto di azionisti e depositanti (bail In) senza che l’Italia si opponesse nelle sedi internazionali a questo evidente svantaggio competitivo.
Nel frattempo la riforma del credito cooperativo ha preso corpo. La Federazione Nazionale delle Bcc (Federcasse) ha promosso la realizzazione fra tutte le Bcc di un unico gruppo bancario con poteri di coordinamento, controllo e soprattutto di indirizzo delle politiche di credito e di prodotto. Ecco la ragione per cui è stata percepita dall’opinione pubblica come un’autoriforma. Ma il vero motivo è un altro: alcuni esponenti nazionali di Federcasse hanno intravisto nella sostanziale unificazione del sistema delle Bcc un’opportunità di accrescimento del loro personale potere, attraverso la creazione del quarto polo bancario nazionale.
Un anacronismo perfetto: mentre gli altri paesi europei hanno fatto di tutto per evitare che le loro piccole e medie banche finissero sotto la penalizzante vigilanza della Bce, in Italia invece, con la riforma, i nascenti gruppi di Bcc assumono dimensioni tali che impongono la vigilanza centralizzata europea penalizzante e sensibile a obiettivi contrastanti con l’interesse nazionale. L’interesse nazionale è un concetto che andrebbe riconsiderato, anche nel rispetto dell’ideale europeista.
Ma la crisi del 2007 non aveva mostrato che il problema fossero le grandi banche che – quando crescono a dismisura – condizionano la politica e sono troppo grandi per fallire?
Alla prossima.