La sentenza della corte d'Assise di Palermo riscrive la nascita della Seconda Repubblica. Di Matteo: “L'ex senatore è il collegamento tra Cosa nostra e il governo dell’ex cavaliere”. L'ex premier: "Io sono estraneo ai fatti". Ma i 12 anni inflitti al suo storico braccio destro per le condotte commesse nel 1994 dicono che il rapporto con la Cupola si estese anche al suo ruolo politico
Dice di essere “estraneo ai fatti in questione”. Ma quei fatti lo riguardano direttamente. Riguardano lui, il suo storico braccio destro, il suo partito, il suo primo governo. Silvio Berlusconi è l’epilogo della Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Guida il partito fondato dall’uomo condannato perché era la “cinghia di trasmissione” delle minacce dei boss. Presiede l’esecutivo destinatario di quelle intimidazioni: se le istituzioni non avessero allentato la pressione sulla piovra, bombe e stragi sarebbero continuate. Si fermeranno poco prima della sua entrata a Palazzo Chigi.
Il motivo lo scriveranno i giudici della corte d’Assise di Palermo nelle motivazioni della sentenza sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Un verdetto che ricostruisce la fine della Prima Repubblica, riscrive la nascita della Seconda e influisce direttamente sulle manovre in corso per far nascere la Terza.
La sentenza che influisce (anche) sulla Terza Repubblica – Le sette condanne inflitte dal giudice Alfredo Montalto, infatti, vengono rilanciate dal Movimento 5 stelle per chiudere definitivamente qualsiasi ipotesi di interlocuzione con Forza Italia e il suo leader. Ed è per questo motivo che il partito azzurro dice di voler querelare Nino Di Matteo, il sostituto procuratore titolare dell’inchiesta sulla Trattativa fin dalla sua apertura. Il motivo? Le parole del magistrato per commentare la condanna di Marcello Dell’Utri a 12 anni di carcere. “La sentenza dice che l’ex senatore ha fatto da cinghia di trasmissione tra le richieste di Cosa nostra e l’allora governo Berlusconi che si era da poco insediato. La corte ritiene provato questo. Ritiene provato che il rapporto non si ferma al Berlusconi imprenditore ma arriva al Berlusconi politico”, ha detto il pm.
“Rapporto anche con Berlusconi politico” – Il riferimento è per la prima condanna di Dell’Utri, quella a sette anni di carcere per concorso esterno a Cosa nostra ma solo per i fatti commessi fino al 1992. Fino a quando, cioè, Berlusconi non era ancora un esponente di un partito politico. Lo sarebbe diventato formalmente solo alla fine del 1993. E infatti la condanna dell’ex senatore al processo Trattativa è per i fatti commessi nel 1994. Quando Berlusconi è già presidente del consiglio. “Marcello Dell’Utri è colpevole del reato ascrittogli limitatamente alle condotte contestate come commesse nei confronti del governo presieduto da Silvio Berlusconi”, recita il dispositivo letto dal giudice Montalto. E il reato ascritto a Dell’Utri è la violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato. L’ex senatore, in pratica, è colpevole di essersi fatto portatore del ricatto di Cosa nostra: o si attenuava la lotta alla mafia, o la piovra avrebbe continuato a colpire il Paese a colpi di tritolo.
Berlusconi: “Io parte lesa”. Del suo braccio destro – “Se il sunto accusatorio di cui è così soddisfatto il dottor Di Matteo fosse valido, Silvio Berlusconi sarebbe la persona offesa in qualità di presidente del Consiglio in quel periodo”, dice il leader di Forza Italia. Che prova a paragonarsi agli altri due governi destinatari delle minacce della mafia nel 1992 e 1993, veicolate dai carabinieri del Ros: quelli di Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi. E in effetti la sentenza della corte d’Assise – così come la ricostruzione dell’accusa – individua il governo Berlusconi come il terzo esecutivo al quale erano indirizzate le intimidazioni dei boss. Da considerare, però, c’è anche altro. C’è, soprattutto, il rapporto personale tra Berlusconi e Dell’Utri. Se Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno condussero fino al cuore dello Stato le richieste di Cosa nostra, diverso è il caso dell’ex cavaliere. Perché a presentare al suo governo le richieste della piovra non era un uomo a lui estraneo: al contrario era il suo braccio destro, l’uomo scelto per curare la fondazione di Forza Italia, il principale partito politico del governo intimidito.
Il prequel: gli attentanti alla Standa – D’altra parte nell’atto d’accusa dei pm Di Matteo, Vittorio Teresi, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene, Berlusconi viene citato più volte: ben prima di scendere formalmente in campo. Già nel 1991, quando Totò Riina è terrorizzato: di lì a poco la corte di Cassazione si sarebbe espressa sul Maxi processo istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. I vecchi politici, come Salvo Lima, avevano garantito che anche questa volta non ci sarebbero stati problemi. Riina, però, non si fida. Comincia a riunire periodicamente i suoi in un casolare in provincia di Enna per dettare la linea: in caso di pronuncia sfavorevole bisognava “pulirsi i piedi“. Bisognava, cioè, massacrare tutti quei politici che non avevano rispettato i patti. Nel frattempo comincia a cercare nuovi interlocutori. “E questo avviene con il metodo mafioso: l’avvertimento, le minacce, l’intimidazione, il contatto. Le intimidazioni sono gli incendi alle sedi Standa, a Catania, dopo i quali si realizza il contatto Cosa nostra-Dell’Utri, quest’ultimo decisivo e indispensabile garante delle richieste di Cosa nostra”, hanno detto i pm nella loro requisitoria. Un tentativo di contatto a cui fa cenno anche Riina, che intercettato in carcere il 22 agosto del 2013 dice: “Lo cercavamo, lo misi sotto: dategli fuoco alla Standa, così lo metto sotto”. Chi cercavano i corleonesi? E chi voleva mettere sotto Riina? Solo Dell’Utri? O soprattutto il suo datore di lavoro?
Marzo 1992: l’operazione Botticelli – Mentre a Catania i roghi alla Standa sono stati appena spenti, a Roma succede l’imponderabile: gli ergastoli del Maxi diventano definitivi. Il capo dei capi va fuori di testa e ordina la reazione. Il primo a cadere è proprio Lima: la sua chioma bianca riversa nel sangue di Mondello il 12 marzo del 1992 è l’atto numero zero della guerra allo Stato. Ma è anche un messaggio diretto ad Andreotti nel giorno in cui iniziava la campagna elettorale per le politiche di aprile. Saranno le ultime elezioni della Prima Repubblica, spazzata via da lì a poco da Tangentopoli, che però quando muore Lima è un’inchiesta ancora alle battute iniziali: in quel mese di marzo del 1992 ancora nessuno può prevedere la fine di un’epoca. Eppure è proprio in quelle settimane che Dell’Utri cerca il politologo Ezio Cartotto per dargli un lavoro: dovrà cominciare a studiare l’
Capaci e i denti di Riina – “Il rapporto si è invertito: ora è la mafia che vuole comandare. E se la politica non obbedisce, la mafia si apre la strada da sola”, scrive su La Stampa Falcone, subito dopo l’omicidio Lima, quando Riina ha già inviato a Roma un commando di morte per lui: dovevano ucciderlo per strada, all’uscita di un ristorante. Da Palermo, però, arriva il contrordine: i picciotti devono tornare a casa. “La genesi di tutto è quando si decise di non uccidere più Falcone a Roma con quelle modalità e si torna in Sicilia: lì cambia tutto e poi non c’è solo mafia”, ha detto il pentito Gaspare Spatuzza. Cosa ci sia oltre la mafia la sentenza della corte d’Assise non lo spiega e probabilmente non lo spiegheranno neanche le motivazioni. Condannando Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, però, i giudici dicono che effettivamente i carabinieri aprirono una trattativa con Cosa nostra: nel giugno del 1992 agganciano Massimo Ciancimino e si pongono come interlocutori del padre Vito e quindi dei corleonesi. “Circa 20 giorni dopo l’attentato a Giovanni Falcone, Riina mi disse: si sono fatti sotto, mi hanno chiesto cosa vogliamo per finirla e io gli ho consegnato un papello di cose”, ha raccontato il pentito Giovanni Brusca. Per l’accusa il dialogo aperto dai carabinieri ingenera in Riina la convinzione che la strada delle bombe è quella giusta. E infatti il 19 luglio del 1992 salta in aria anche Paolo Borsellino. Dalla strage di Capaci sono passati solo 56 giorni: perché tutta questa fretta? “Forse Riina doveva mantenere impegni, come se qualcuno fuori da Cosa nostra glielo avesse chiesto”, ha raccontato Salvatore Cancemi, il pentito che per primo ha parlato di legami tra il capo dei capi e Berlusconi.“Riina – ha spiegato – diceva che si stava giocando i denti per il bene di Cosa nostra e che aveva Berlusconi e Dell’Utri nelle mani: con loro possiamo dormire sonni tranquilli”.
Le intercettazioni di Graviano – Sembrano riferirsi a quel periodo anche le intercettazioni in carcere del boss Giuseppe Graviano. “Nel ’92 lui già voleva scendere. Lui voleva scendere, però in quel periodo c’erano i vecchi e lui mi ha detto ci vorrebbe una bella cosa“. Un’ intercettazione depositata al processo e che gli inquirenti interpretano come un’allusione proprio alla strage di via d’Amelio, con l’allora imprenditore Berlusconi che sarebbe già stato intenzionato a scendere in campo. Ipotesi avanzata più volte in passato ma mai dimostrata, che viene rilanciata dopo la sentenza dell’aula bunker del carcere Pagliarelli. Anche perché Graviano in carcere dice anche altro. “Nel ’93 ci sono state altre stragi ma no che era la mafia. Loro dicono che era la mafia”, racconta riferendosi ai botti di Firenze, Milano e Roma, quando per la prima volta Cosa nostra – che nel frattempo è passata sotto la guida di Leoluca Bagarella – colpisce fuori dalla Sicilia. Eccidi che, dopo la sentenza della corte d’Assise, sono da considerarsi a tutti gli effetti messaggi diretti a Palazzo Chigi.
“Le stragi fermate grazie a Graviano” – “Lo sai cosa scrivono nelle stragi? Nelle sentenze delle stragi, che poi sono state assoluzione la Cassazione e compagnia bella: le stragi si sono fermate grazie all’arresto del sottoscritto“, è un’altra intercettazione di Graviano depositata al processo. E in effetti il boss di Brancaccio viene arrestato il 27 gennaio del 1994: da allora non un solo colpo sarà sparato nella Penisola, nuovo regno della pax mafiosa. È per questo motivo che gli investigatori hanno collegato quelle conversazioni al fallito attentato dello stadio Olimpico, che doveva essere compiuto nelle prime settimane del 1994. È il “colpetto” che secondo il pentito Spatuzza si doveva dare per ordine dello stesso Graviano. Il collaboratore ha raccontato di aver incontrato il suo capomafia a Roma il 21 gennaio 1994. “Incontrai Giuseppe Graviano all’interno del bar Doney in via Veneto, a Roma. Graviano era molto felice, come se avesse vinto al Superenalotto, una Lotteria. Poi mi fece il nome di Berlusconi. Io gli chiesi se fosse quello di Canale 5 e lui rispose in maniera affermativa. Aggiunse che in mezzo c’era anche il nostro compaesano Dell’Utri e che grazie a loro c’eravamo messi il Paese nelle mani. E per Paese intendo l’Italia. Quindi mi spiega che grazie a queste persone di fiducia che avevano portato a buon fine questa situazione, che non erano come quei quattro crasti (cornuti ndr) dei socialisti”. A quel punto arriva la richiesta: “Graviano mi dice che l’attentato ai carabinieri si deve fare lo stesso perché gli dobbiamo dare il colpo di grazia”. Il riferimento è proprio all’attentato allo stadio Olimpico contro il pullman dei carabinieri che mantengono l’ordine pubblico durante le partite di calcio. Sarebbe stata l’ennesima strage di quel biennio: per fortuna salta, perché a detta di Spatuzza ci fu un problema al telecomando collegato all’autobomba.
Arriva B. La mafia non spara più – Nello stesso periodo in cui Graviano incontra Spatuzza a Roma, proprio Dell’Utri si trova nella capitale a pochi metri dal bar Doney: il 22 gennaio 1994, infatti, era in programma una convention di Forza Italia all’hotel Majestic, sempre in via Veneto. Secondo gli accertamenti della Dia l’arrivo dell’ex senatore in albergo – a circa 50 metri dal bar Doney – è registrato il 18 gennaio. È possibile che Graviano abbia incontrato Dell’Utri negli stessi giorni in cui dava quegli ordini a Spatuzza? Di sicuro c’è solo che il 26 gennaio Berlusconi aveva ufficializzato il suo ingresso in politica. Meno di 24 ore dopo i boss di Brancaccio vengono arrestati. Da quel momento finiscono le stragi. All’improvviso Cosa nostra smette di mettere le bombe, di fare la guerra allo Stato, di destabilizzare il Paese. I boss e i picciotti – lo dicono molti collaboratori di giustizia – si mettono a fare campagna elettorale per Forza Italia, che poco dopo stravince le elezioni. Berlusconi va al governo e diventa il destinatario della minaccia di Cosa nostra. L’intermediario di quella minaccia è Marcello Dell’Utri, il suo storico braccio destro, il fondatore del suo partito. E allo stesso tempo l’uomo cerniera tra boss e politica, la “cinghia di trasmissione” delle volontà della piovra. La Seconda Repubblica è nata così.
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