L'autore del saggio che ha scatenato le polemiche sulla procura di Palermo non ha cambiato idea: nonostante il verdetto, il processo non si doveva fare. E collega le condanne emesse alla presenza all'interno della corte d'Assise di sei giudici popolari : "Credo che le questioni giuridiche emergenti fossero troppo sottili per la componente laica. Ritengo che siano questioni di competenza di un giudice solo professionale"
Un suo saggio, pubblicato dal Foglio con un titolo non proprio sobrissimo, aveva scatenato le critiche sulla procura di Palermo. “La Trattativa è una boiata pazzesca“, campeggiava sulle sette pagine di inserto allegate al quotidiano allora diretto da Giuliano Ferrara. Erano i mesi in Giorgio Napolitano aveva trascinato davanti alla Consulta i pm siciliani e il giurista Giovanni Fiandaca – il padre del diritto penale antimafia – faceva a pezzi l’inchiesta appena chiusa sul presunto patto tra pezzi dello Stato e Istituzioni. “Un processo illegittimo“, l’aveva definito, fornendo agli indagati eccellenti dell’inchiesta una “copertura giuridica” da agitare come un vessillo contro i pm palermitani. E ora che quella “boiata pazzesca” è stata riconosciuta come provata da una sentenza storica – seppur soltanto di primo grado – Fiandaca non ha cambiato idea: per lui quel processo finito con sette condanne non andava fatto. Oppure la corte presieduta da Alfredo Montalto avrebbe dovuto assolvere tutti i nove imputati.
“Avrei visto di più un’assoluzione. Ma le mie riserve giuridiche rimangono intatte, specie quelle sulla configurabilità in questo caso del reato di minaccia a un corpo politico“, dice il professore all’edizione palermitana di Repubblica. Ma allora perché i giudici della corte d’Assise hanno condannato sei dei nove imputati proprio per quel reato che lui considera non configurabile? “Credo che le questioni giuridiche emergenti fossero troppo sottili per la componente laica della corte d’ assise”, dice Fiandaca. Il quale fa quindi risalire il verdetto alla scarsa preparazione dei sei giudici popolari, che hanno affiancato Montalto e la giudice a latere Stefania Brambille nei cinque lunghi anni del processo più criticato d’Italia.
Ma le sentenze non sono emesse in nome del popolo italiano? E non è previsto dalla legge che in una corte d’Assise ci siano appunto rappresentanti di quello stesso popolo? “Io ritengo che siano questioni di competenza di un giudice solo professionale“, aggiunge all’Ansa il giurista. Ribadendo che per lui quello sulla Trattativa era un processo che non doveva neanche cominciare. “La mia – spiega – è un’opinione condivisa anche da altri giuristi, ma negli ultimi anni sempre meno noi professori e i magistrati ci siamo capiti, nel senso che la magistratura in buona fede ricorre a interpretazioni estensive delle norme incriminatrici anche sorvolando su questioni di stretto diritto pur di arrivare ai risultati repressivi che ritiene necessari”.
A sostegno della sua tesi – che non cambia di una virgola neanche nel day after della sentenza – Fiandaca riporta obiezioni in punta di diritto. “Mi sembra appeso nel vuoto, in questa sentenza, il concorso mafioso dei non mafiosi, cioé degli ufficiali dei carabinieri e di dell’Utri, nei confronti del quale non esito a dire che c’ è stata una sproporzione repressiva“, sostiene l’ex candidato del Pd, non eletto alle elezioni europee del 2014. Il professore di diritto Penale, quindi, considera troppo duri i 12 anni inflitti al fondatore di Forza Italia e ai vertici del Ros Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni. “Non credo che questa vicenda abbia inciso sulla lotta a Cosa nostra – torna a sostenere – Ripeto il titolo del nostro libro: la mafia non ha vinto. C’ è stato un tentativo di trattativa che, per le istituzioni, aveva il solo scopo di bloccare le stragi: non era finalizzata a una convivenza pacifica con Cosa Nostra”. I giudici, però, la pensano diversamente. Sia i popolari che i togati.