C’è molto da dire sul caso Alpi-Hrovatin, poco da dire, purtroppo, sulla “nuova pista” emersa dalle intercettazioni provenienti dalla procura di Firenze a quella di Roma, prodotte davanti al gip che il 17 aprile doveva decidere se accogliere o respingere la richiesta di archiviazione chiesta dalla procura di Roma.
Su queste carte, se qualche riga va spesa è per l’ennesima ombra che accompagna la loro comparsa. Come ricostruisce con precisione Andrea Palladino nell’articolo del Fatto quotidiano del 21 aprile, sono partite da Firenze nel 2012 e arrivate a Roma nel gennaio 2018. Neanche portandole a piedi e passando per Mogadiscio ci avrebbero messo tanto. È chiaro che c’è qualcosa – e non poco – da chiarire, soprattutto riguardo al momento della loro “apparizione” a Roma: perché ora?
Perché nell’arco di tempo fra la richiesta di archiviazione della procura e l’udienza di decisione del gip (che tuttavia l’ha rinviata al prossimo 8 giugno, proprio per esaminarle meglio)? Fatti che meritano attenzione, ma che probabilmente non daranno un grande contributo di verità sull’agguato in Somalia del 20 marzo 1994. Se c’è una caratteristica sistematica di tutto quanto riguarda il caso Alpi-Hrovatin è il gioco di accensione e spegnimento “ad orologeria” di fuochi fatui, sempre in corrispondenza di altri fuochi veri, da oscurare e nascondere. Quali sono, però, oggi, i fuochi veri? Ce ne sono tanti, nell’iter giudiziario lungo oramai 24 anni del duplice assassinio di Mogadiscio.
Ne ha indicati ben 26 Emanuele Cersosimo, il gip che nel 2007 respinse la prima richiesta di archiviazione della procura di Roma: 26 questioni da approfondire, piste da sviluppare, indagini da realizzare. Sono state fatte? Se dobbiamo guardare a uno di quei punti (che peraltro è tra i più importanti) non c’è da stare allegri: il magistrato chiedeva di individuare Ahmed Ali Rage detto Jelle, l’accusatore di Hashi Omar Hassan. Gli investigatori non l’hanno mai trovato, l’hanno fatto – e solo nel 2015 – i colleghi di Chi l’ha visto.
La lista delle indagini da sviluppare sarebbe davvero molto lunga, troppo per non tediare chi legge. Mi limito a indicare solo tre altri filoni. Quali operazioni di “distrazione di massa” sono state realizzate dentro la Commissione parlamentare presieduta da Carlo Taormina? Sappiamo, ad esempio, che è stata fatta recuperare la presunta auto dei due giornalisti, per poi scoprire (molto dopo, quando la maggioranza della Commissione aveva già approvato la fuorviante Relazione del Presidente) che non poteva essere quella. Sappiamo che molte piste d’indagine suggerite da commissari e consulenti sono state lasciate cadere. Sappiamo che la relazione finale di Taormina ha basato molte delle sue conclusioni più sconcertanti sui documenti e i testimoni portatigli da Giancarlo Marocchino (il chiacchierato imprenditore italiano in Somalia dal 1984, primo ad arrivare sul luogo dell’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin) e Stefano Menicacci, avvocato ed ex parlamentare missino, ma più noto come indagato a Palermo per eversione e minaccia a corpo politico dello Stato (nell’inchiesta Sistemi criminali, la “madre” di quella sulla Trattativa Stato-mafia che è giunta a sentenza) e co-fondatore di molte delle Leghe del Sud.
Cosa hanno fatto gli uomini di Gladio in Somalia? E perché? La desecretazione dei documenti voluta dalla presidente della Camera Laura Boldrini ha permesso di portare alla luce molta documentazione ancora sconosciuta, ma manca all’appello la parte più importante: quella relativa alle operazioni coordinate da Stay Behind (meglio conosciuta come Gladio). Ci sono ampie tracce che uomini di quella struttura (allora) segreta agirono in Somalia, anche negli anni in cui vi si recò Ilaria Alpi (1992-1994), anche nei giorni precedenti la sua uccisione, ma la documentazione è del tutto sconosciuta.
Chi ha orchestrato il depistaggio che ha portato all’arresto e alla condanna (ingiusta) di Hashi Omar Hassan? Nella sentenza di revisione del processo, svoltosi a Perugia, c’è scritto nero su bianco che Hashi è stato un capro espiatorio e che è stato vittima di un’ampia operazione di depistaggio. Sappiamo anche cosa affermò Jelle, l’accusatore di Hashi, quando fu finalmente trovato e intervistato dalla collega Chiara Cazzaniga: che fu pagato, dalle istituzioni del nostro Paese, per “incastrare” l’allora giovane somalo con la sua testimonianza.
Già solo questi tre ambiti potrebbero portare molta luce sul caso Alpi-Hrovatin, anche se siamo a 24 di distanza dall’omicidio, anche se siamo a 20 anni dall’arresto di Hashi, anche se siamo a 12 anni dalla fine dei lavori della Commissione parlamentare e a 11 dalla sentenza del gip Cersosimo con i famosi 26 punti.
Non c’è bisogno delle nuove intercettazioni per continuare a indagare sull’omicidio di Ilaria e Miran.