È quanto emerge dai risultati diffusi oggi dall’Istituto di scienze marine del Cnr di Genova (Ismar), dall’Università politecnica delle Marche e da Greenpeace Italia, frutto dei campionamenti realizzati durante il tour ‘Meno Plastica più Mediterraneo’
Nelle acque superficiali dei mari italiani la presenza di microplastiche è, in alcune aree, così diffusa da essere comparabile a quella dei vortici oceanici del nord Pacifico: i picchi più alti nelle acque di Portici (Napoli) e in aree marine protette come le Isole Tremiti (Foggia). È quanto emerge dai risultati diffusi oggi dall’Istituto di scienze marine del Cnr di Genova (Ismar), dall’Università politecnica delle Marche e da Greenpeace Italia, frutto dei campionamenti nelle acque italiane realizzati durante il tour ‘Meno Plastica più Mediterraneo’ della nave ammiraglia di Greenpeace, Rainbow Warrior, lungo le coste del Mediterraneo. Ai risultati prodotti dal Cnr-Ismar si aggiungeranno nei prossimi mesi anche quelli raccolti dall’Università politecnica per verificare la presenza e la composizione di microplastiche nei pesci e negli organismi marini. “I dati raccolti confermano che i nostri mari stanno letteralmente soffocando sotto una montagna di plastica e microplastica, per lo più derivante dall’uso e dalla dispersione di articoli monouso” commenta Serena Maso, campagna mare di Greenpeace.
LA PRESENZA DI MICROPLASTICHE NEI MARI ITALIANI – L’obiettivo dei campionamenti effettuati dall’Ismar è stato quello stabilire la quantità e la composizione di microplastiche sulla superficie delle acque marine italiane e nello zooplancton e produrre maggiori dati per supportare la standardizzazione e l’armonizzazione dei protocolli per la ricerca scientifica. “Lo studio conferma l’enorme presenza anche nel Mediterraneo di microplastiche – spiega Greenpeace – con valori paragonabili a quelli che si trovano nelle ‘zuppe di plastica’ presenti nei vortici oceanici”. Le plastiche sono polimeri sintetici la cui produzione è aumentata in modo esponenziale negli ultimi 50 anni: solo nel 2015 ne sono stati prodotti 300 milioni di tonnellate e ogni anno in mare ne finiscono circa 8 milioni di tonnellate. Le microplastiche provengono da diverse fonti: quelle primarie derivano principalmente da prodotti per l’igiene personale, come cosmetici, creme, dentifrici, oppure sono le materie prime come pellet o polveri di plastica utilizzate per la produzione di materiali plastici. Le microplastiche secondarie derivano invece dalla frammentazione e decomposizione di materiali plastici di dimensioni più grandi. Diversi studi, inoltre, evidenziato che proprio quelle secondarie contengono additivi chimici come gli ftalati.
I CASI DI PORTICI E DELLE ISOLE TREMITI – “Preoccupante è il fatto che concentrazioni cosi elevate di microplastiche siano evidenti anche nel Mediterraneo – sottolinea Greenpeace – un bacino semi-chiuso fortemente antropizzato, con un limitato riciclo d’acqua che ne consente l’accumulo”. La campagna ha permesso di analizzare campioni di acqua di mare prelevata in 19 stazioni lungo la costa italiana, da Genova ad Ancona. I prelievi sono stati effettuati sia in zone sottoposte a un forte impatto antropico (foci di fiumi e porti) che in aree marine protette. “I risultati indicano che l’inquinamento da plastica non conosce confini e che i frammenti si accumulano anche in aree protette o in zone teoricamente lontane da sorgenti di inquinamento” commenta Francesca Garaventa, responsabile Cnr-Ismar dei campionamenti. Nella stazione di Portici (Napoli), zona a forte impatto antropico, si trovano valori di microplastiche pari a 3,56 frammenti per metro cubo ma valori non molto inferiori (2,2) si trovano anche alle Isole Tremiti”. Ma cosa significhino questi valori? “Immaginiamo di riempire due piscine olimpioniche con l’acqua delle Isole Tremiti e l’acqua di Portici: nella prima ci troveremmo a nuotare in mezzo a 5.500 pezzi e nella seconda in mezzo a 8.900 pezzi di plastica”. A Tor Paterno Lipari i pezzi sarebbero 1700, a Lipari 750, al Giglio (una delle due stazioni monitorate) 700. L’analisi ha permesso di identificare 14 tipi di polimeri. La maggior parte delle plastiche ritrovate è fatta di polietilene, ovvero il polimero con cui viene prodotta la maggior parte del packaging e gli imballaggi usa e getta. “Per invertire questo drammatico trend bisogna intervenire alla fonte, ovvero la produzione” spiega Serena Maso, secondo cui “il riciclo non è la soluzione e sono le aziende responsabili che devono farsi carico del problema, partendo dall’eliminazione della plastica usa e getta”.