Il sostituto pg Gemma Gualdi per Binda aveva chiesto l'ergastolo per omicidio volontario aggravato dalla crudeltà e da motivi abbietti e futili. Le indagini sulla morte della giovane erano state riaperte dal sostituto procuratore generale di Milano Carmen Manfredda nel giugno del 2015 e culminate con l'arresto dell'uomo il 15 gennaio 2016
I giudici della Corte d’assise di Varese hanno condannato all’ergastolo Stefano Binda, unico imputato per l’omicidio di Lidia Macchi, la studentessa trovata uccisa con 29 coltellate nel gennaio del 1987 in un bosco a Cittiglio, nel Varesotto. Il sostituto pg Gemma Gualdi per Binda aveva chiesto il fine pena mai per omicidio volontario aggravato dalla crudeltà e da motivi abbietti e futili.
Le indagini sulla morte della giovane erano state riaperte dal sostituto procuratore generale di Milano Carmen Manfredda nel giugno del 2015 e culminate con l’arresto di Stefano Binda il 15 gennaio 2016, partendo dalla testimonianza di Patrizia Bianchi, amica dell’imputato, la quale si presentò agli investigatori affermando di aver riconosciuto la calligrafia di Binda nella lettera “in morte di un’amica” recapitata a casa Macchi il 10 gennaio dell’87, mostrata in una trasmissione televisiva. La perizia calligrafica effettuata dalla consulente dell’accusa sostenne che a scriverla fu proprio Binda. Importante, per l’accusa, anche la testimonianza di Lelio Defina, sospettato per qualche tempo di poter essere il killer di Lidia, i cui racconti avrebbero però confermato la frequentazione durante il periodo universitario tra Binda e la vittima, entrambi vicini a Comunione e Liberazione ed ex compagni di scuola.
Il movente del delitto, sempre secondo l’accusa, sarebbe da ricercare nella psicologia “borderline” di Binda il quale, dopo aver presumibilmente consumato un rapporto sessuale con Lidia Macchi, si sarebbe fatto prendere dallo sconforto perché “pentito”, oppure perche una donna si era “avvicinata troppo” a lui.
La lettera che aveva portato gli investigatori a Binda venne scritta in stampatello su un foglio bianco, di quelli da inserire nei quaderni a ganci, su due colonne dove venivano riportati molti particolari del delitto e il movente “religioso”: anche se questo verrà decifrato solo 29 anni dopo. La missiva venne recapitata alla famiglia Macchi il 10 gennaio, giorno delle esequie, quando ancora molti dettagli del delitto non erano emersi. Dunque solo il killer – ragionano gli inquirenti – poteva averla scritta. La “poesia” si intitolava “In morte di un’amica“. Otto strofe. Versi macabri dove Lidia veniva descritta come “agnello sacrificale“, “agnello senza macchia” e “agnello purificato”. Vittima di “orrenda cesura” e “strazio di carni”. In una “notte di gelo, che le stelle son così belle, il corpo offeso, velo di tempio strappato, giace”. “Nel nome del Padre sia la tua volontà”, la preghiera con cui si chiude la lettera: una lucida descrizione del massacro.
È “un giorno di sollievo, perché finalmente è stata stabilità una verità processuale che corrisponde a quella storica – commenta il sostituto pg Gemma Guald – è un giorno di dolore per tutti, famigliari della vittima ma anche per colpevole, ma è un affermazione dello Stato e di tutte le persone che hanno voluto la verità e che fanno parte di questo Stato”.
“Da una parte sono contenta, dall’altra penso a una mamma che si trova con un figlio in una situazione così, io l’ho persa ma anche lei” dice Paola Bettoni, mamma della vittima. “Lidia non meritava un morte così. Ho sempre chiesto il colpevole, non un colpevole a caso. Dopo quello che è venuto fuori durante il processo, penso che sia lui”, ha detto rispondendo alla domanda “è convinta sia lui il responsabile?”. “Spero si siano chiarite un po’ le cose, perché una ragazza come Lidia non poteva morire in questo modo”.
“Dopo trent’anni si aspettava una sentenza, penso sia giusto innanzitutto per Lidia, per i suoi familiari e per chi ha avuto modo di conoscerla – dichiara l’avvocato della famiglia Macchi Daniele Pizzi – Aspettiamo la motivazione della sentenza per capire che ricostruzione ha dato la corte. Direi che resta la sofferenza di una persona che non c’è più e quella di una persona condannata al carcere a vita, sebbene in forma non definitiva. Però ritengo che questo momento fosse doveroso per Lidia”. “Siamo in coscienza convinti che la soluzione adottata sia ingiusta – dice l’avvocato Sergio Martelli, difensore insieme alla collega Patrizia Esposito di Binda – una sentenza inaspettata anche se, trattandosi di un processo mediatico che ha fatto la storia di un tribunale, sapevo che il peso sarebbe stato notevole, non so poi se questo ha influito. Penso sempre che i giudici arrivino a usare il buon senso – ha proseguito – hanno ritenuto che sia stato colpevole, noi non abbiamo trovato elementi per una condanna, quindi aspettiamo le motivazioni e vedremo, andremo avanti”.