E’ il nuovo silenzioso cancro che sta riproducendo sacche di metastasi nelle nostre città: l’odio nei confronti dei poveri. Senza accorgersene, lo respiriamo nell’aria camminando sui marciapiedi, prendendo i mezzi pubblici o facendo la fila negli uffici; lo vediamo radicarsi leggendo i giornali e guadando talk show, e moltiplicarsi navigando sui social o ascoltando le invettive di alcuni politici.
Gli anticorpi che abbiamo sono deboli perché negli ultimi anni sono rapidamente cambiate le forme di povertà e sono soprattutto mutate le percezioni che si hanno sugli “stati di povertà”.
Un dato è certo: in Italia la povertà avanza a macchia d’olio. Ce lo dicono i periodici dati forniti dall’Eurostat sul numero di persone a rischio di povertà o di esclusione sociale che fotografano impietosamente un fenomeno in costante aumento. In Europa, nel 2016, raggiungeva la soglia delle 118 milioni di persone, il 23,5% della popolazione in valori assoluti, 806mila persone in più rispetto al 2008.
In termini relativi, tra il 2008 e il 2016 il numero di persone a rischio di povertà o esclusione ha avuto il suo incremento maggiore in Grecia (+7.5%) e in Italia (+4.4%). Secondo gli ultimi dati Istat, nel 2016 in Italia si stimano 1.619mila famiglie in condizione di povertà assoluta corrispondente a quasi cinque milioni di cittadini. La povertà, soprattutto urbana, è un virus in crescita e nel suo espandersi muta la sua forma.
Dagli anni Ottanta si era avviato in Italia quell’irreversibile processo volto a concentrarla e rinchiuderla in uno spazio urbano definito, dando vita ad aree delle città abitate quasi esclusivamente da soggetti o famiglie in condizione di povertà. Aree dove la povertà e la segregazione si riproducono aumentando e perpetuando traiettorie di impoverimento. Negli anni successivi la politica dei “campi nomadi” e dei centri per immigrati ha inaugurato nel nostro Paese un modello – talvolta realizzato su base etnica – di relegazione e iper-ghettizzazione. Si è andata così manifestando questa nuova forma della povertà caratterizzata non solo dall’assenza di risorse economiche, ma anche dalla rottura dei legami e dalla esclusione sociale, segnata da un isolamento spaziale e relazionale. L’ultima crisi economica e bancaria, esplosa nel 2008, ha ampliato nelle nostre città la porzione di cittadini italiani e stranieri deprivati economicamente e isolati dalla società.
Oggi siamo di fronte ad un fenomeno inedito, l'”urbanizzazione della povertà“, dove la segregazione sociale si declina in diverse forme: spazi periferici popolati da gruppi a minore reddito; “campi nomadi”; baraccopoli che accolgono gli immigrati, iper-ghetti popolati da lavoratori stagionali, centri di accoglienza per richiedenti asilo. In una condizione dove la povertà è messa all’angolo e isolata dalla nostra ferialità, quando incontriamo un povero scattano in noi degli incontrollati processi mentali intrisi di paura, rifiuto, rigetto. Fino a degenerare in esplicito odio.
Siamo forse davanti ad un fenomeno nuovo che sta scavalcando l’odio verso gli stranieri o verso i rom. Ma allora si può ancora parlare di xenofobia o l’antigitanismo? O si tratta di categorie che, senza accorgersene, risultano sorpassate? Se esistessero nella pienezza del loro significato perché allora “tolleriamo“ i 17 milioni di turisti stranieri che annualmente giungono in Italia o il deputato nero, o il rom che studia, lavora, va all’università?
La verità è che chi sta bene – come e meglio di noi – diventa oggetto di ammirazione. Chi sta male ed è precipitato nella scala sociale, lo respingiamo. Da questo punto di vista il parente (che conosciamo) diventato un barbone sta sullo stesso piano del rom (che non conosciamo) che scava nei cassonetti o del migrante (anche lui sconosciuto) che sbarca da un barcone. Tutti sono diventati, nel nostro cervello, lo scarto umano da cui liberarsi il prima possibile e da gettare lontano da noi, perché attentano alla nostra sicurezza e alla tranquillità del nostro quotidiano.
La filosofa spagnola Adela Cortina ha recentemente coniato una parola per apostrofare il nuovo male: “aporofobia“, l’odio verso i poveri. Assegnare un nome ad una malattia rappresenta il primo passo per iniziare a cercare la cura. Prima che il male paralizzi definitivamente noi e ciò che resta della nostra capacità di solidarizzare, unica ricchezza rimasta alla nostra umanità decaduta.