Politica

Governo, l’ombra lunga di Renzi sulla direzione Pd. Salvini: “O governo di centrodestra o nuove elezioni entro l’estate”

L'ex segretario tornerà a parlare in pubblico dal giorno delle dimissioni. Un intervento "non condizionante", si dice, ma Orfini appare chiaro: "Per me Salvini e Di Maio sono la stessa cosa". Nelle trattative interne al partito gli uomini del segretario chiedono condizioni molto dure per il M5s (come legittimare Jobs Act e Buona Scuola). Intanto il Quirinale pensa già a un piano B: come lasciare Gentiloni fino a settembre, ma con l'obiettivo di una riforma elettorale

Sulla trattativa tra Movimento Cinque Stelle e Partito Democratico si allunga un’ombra. Matteo Renzi, infatti, tornerà a parlare in pubblico per la prima volta dall’annuncio delle dimissioni da segretario del 5 marzo proprio tre giorni prima della direzione nazionale del partito. Lo farà in prima serata su Rai1, ospite di Fabio Fazio, smentendo quell’uscita all’insediamento quando aveva giurato che sarebbe stato “zitto per due anni” e confermando l’intenzione di parlare a fine aprile (aveva detto nell’assemblea che doveva tenersi il 21 ma poi è stata rinviata). Comunque sia l’intervista da Fazio diventa un ostacolo alto così all’avvio del dialogo tra i due partiti a favore del quale il segretario reggente Maurizio Martina si sta sbilanciando da giorni. Se le premesse sono quelle di piazza della Signoria, a Firenze, con l’ex premier che girava nel giorno della Liberazione a chiedere ai passanti se fossero d’accordo con l’idea di un’alleanza con i grillini, le speranze di una “svolta” sono ai minimi termini. E a rafforzare questa convinzione arrivano anche le parole del presidente del Pd, Matteo Orfini, ormai braccio armato dell’ex segretario: “Per me Salvini e Di Maio sono la stessa cosa, opposti della sinistra”. Le trattative nel partito continuano, ma la strada del confronto con il M5s sembra un sentiero strettissimo, con la corrente “pro-dialogo” (di Martina, di Franceschini, di Orlando) comunque in minoranza in direzione. E’ così che per la prima volta, e da giorni, i quirinalisti di tutti i giornali riferiscono dello sconforto del presidente della Repubblica Sergio Mattarella che dopo oltre 50 giorni sta pensando seriamente all’ultima carta prima del voto: lasciare il governo Gentiloni in ordinaria amministrazione e chiedere la riforma della legge elettorale in modo da evitare un’altra paralisi dopo le nuove elezioni, da indire magari a settembre o a ottobre. Secondo Matteo Salvini, che però per il momento non è il capo dello Stato, non è affatto detto: “O c’è un governo di centrodestra o non c’è nessun governo e si torna a votare e vinciamo da soli – dice durante le ultime ore di campagna elettorale in Friuli Venezia Giulia – Questo lo dico a qualcuno che è arrivato secondo e vuole dettare le regole e lo dico sottovoce anche a chi pensa di non escludere di ragionare con Renzi e con il Pd“. Poche ore prima aveva detto anche che “se questo non è possibile si torni alle urne subito, entro l’estate. Non sta scritto né in cielo né in terra che si debba arrivare a ottobre. Anche perché, con l’aria che tira, io penso che una maggioranza qualcuno la porta a casa se si vota a giugno”. Naturalmente la cronaca delle ultime settimane viene in soccorso per ricordare che il Pd è tornato in gioco solo il fallimento delle trattative – apparse un po’ come il gioco dell’oca – proprio del centrodestra con i Cinquestelle. Peraltro, secondo alcuni calcoli, la “finestra” elettorale dell’estate si chiuderebbe già il 9 maggio (notizia accolta secondo alcune fonti con un sospiro di sollievo dagli ambienti del Pd).

In ogni caos la risposta a ogni domanda arriverà dalla direzione del Partito Democratico di giovedì prossimo. E tre giorni prima ci sarà l’intervista a Renzi, un intervento definito dai retroscena di alcune agenzie di stampa “non condizionante”. Allo stato, nel Pd le posizioni restano cristallizzate tra il fronte renziano fermo sul no ai 5 Stelle e i “dialoganti” che spingono per aprire un confronto. Martina lo ha ribadito oggi: “Si tratta di decidere se accettare il confronto o meno per giudicarne gli esiti solo alla fine di un vero lavoro di approfondimento.

E i pontieri, al lavoro per evitare una conta potenzialmente lacerante nella riunione di giovedì, stanno cercando la formula per una mediazione: ok al tavolo con i Cinquestelle ma con “condizioni pesanti” da parte del Pd. Una strategia che assicurerebbe anche il risultato finale: far fallire il tentativo con il M5s con un’asticella così alta da risultare “impotabile” per Luigi Di Maio. Questa resterebbe l’intenzione, a meno di svolte inaspettate, del fronte renziano. In serata è anche Ettore Rosato a ribadire le pre-condizioni richieste dal Pd ai 5 Stelle per valutare l’avvio di un confronto che, a sentire il vicepresidente della Camera, partirebbe più in salita: in sostanza la richiesta ai grillini è quella di riconoscere l’azione del governo Renzi. Dal Jobs Act alla Buona Scuola. Insomma, tutte quelle riforme la cui abolizione è parte del programma M5s. Dice Rosato: “Ci sono due precondizioni: la prima è quella che loro considerino chiuso il dialogo con la Lega e la seconda è che considerino la stagione delle riforme del Pd un elemento positivo per questo Paese. Se ciò non fosse per noi non sarebbe possibile fare un governo con chi considera quei 5 anni” in modo negativo e “vuole smontare le cose fatte dal centrosinistra”. Mentre Andrea Orlando spinge per un referendum interno tra gli elettori del Pd (che però vorrebbe dire altro tempo da chiedere al Quirinale il cui inquilino comincia a essere impaziente al limite dell’irritato).

Se lo scontro fosse frontale, in Direzione difficilmente il fronte renziano potrebbe finire in minoranza. I numeri sono solidi. Secondo un calcolo ben fatto di Francesco Oggiano su Vanity Fair i “non renziani” non superano quota 70-75 su un totale di aventi diritto che supera di parecchio i 200. Soltanto i renziani, insieme agli uomini di Orfini e Delrio, sfondano quota 120. E per giunta sarebbe una conta che potrebbe portare a conseguenze pesanti nel Pd, a partire dalla reggenza Martina che ne uscirebbe triturata. Ma sarebbe solo il primo dei problemi, non solo per il Pd.