Flaminio de Castelmur per @SpazioEconomia

Cosa unisce la musica jazz con il lavoro nella new economy? Poco, tranne il termine gig che fin dall’inizio del ‘900 rappresentava l’ingaggio di una serata (abbreviando forse il termine engagement). Saltuario come tutti gli ingaggi degli artisti nella musica. Utilizzò il termine anche Hillary Clinton durante la Campagna Elettorale del 2015 come sinonimo di “economia on demand”, senza garanzie e tutele per i lavoratori. E proprio da questo aspetto dobbiamo partire per analizzare il fenomeno.

Data pochi giorni fa la sentenza del Tribunale di Torino che ha dato ragione alla multinazionale Foodora contro 6 ex lavoratori (definiti rider perché addetti alle consegne di cibo in bicicletta), i quali assumevano violati i loro diritti nel momento in cui l’Azienda non ha rinnovato i loro contratti, svolti peraltro secondo loro con modalità riconducibili al lavoro subordinato. Con garanzie e versamenti contributivi adeguati al contratto.

La modalità di svolgimento della prestazione non ha convinto però i giudici a ricondurre il lavoro svolto nelle fattispecie regolate dal diritto del lavoro nei modi richiesti, configurando invece la figura della collaborazione coordinata e continuativa, peraltro prestata con assicurazione Inail e contributi Inps adeguati. Non li ha convinti la modalità prevista per i rider di decidere quando e in che misura dichiarare la propria disponibilità a lavorare (una app), la mancanza di un obbligo a fornire una disponibilità minima o la “sorveglianza” della loro ubicazione da parte dell’Azienda effettuata tramite geolocalizzazione e app.

Rileviamo riguardo la sentenza una dichiarazione rilasciata da Foodora a Panorama.it: “Teniamo a precisare che quanto scritto è quanto sostenuto dai 6 ex rider. In attesa di leggere le motivazioni della sentenza, Foodora ribadisce invece che nessun rider coinvolto nelle richieste di ottobre scorso è stato licenziato e a tutti è stata data la possibilità di rinnovare il contratto in scadenza. Con l’occasione si ricorda che i rider, avendo un contratto di collaborazione coordinata e continuativa hanno sia assicurazione Inail in caso di infortunio su lavoro sia i contributi Inps. Sempre a carico dell’azienda è stata inoltre stipulata un’assicurazione integrativa in caso di danni a terzi”.

E’ importante analizzare lo “stato dell’arte” in Italia per questi lavoratori “atipici”, che non sono poi pochi se è vero che, come certificato dall’Istat con un’indagine sul mercato del lavoro del 2017, le persone coinvolte erano meno di 100.000 prima del 2010, diventate 215.000 nel 2011 e arrivate a quasi un milione e 800.000 nel 2016. L’Istat rileva che nell’arco di cinque anni, dal 2012 al 2016, il numero di datori di lavoro che richiedono questo lavoro accessorio si è moltiplicato per quattro e quello dei rapporti di lavoro per cinque.

Anche la Coop nel suo ultimo Rapporto si è occupata di gig worker, scoprendo che nel 62% dei casi hanno più di 30 anni, guadagnano spesso fino a un massimo di 500 euro mensili (65%) e nella maggior parte dei casi si limitano alla licenza media superiore (60%). Non è un lavoro per chi è disoccupato o deve ancora finire gli studi, in quanto in un caso su quattro (il 26%) il gig worker sarebbe dipendente a tempo pieno, contro un 22% di studenti e un altro 14% effettivamente disoccupato. Probabilmente questa occupazione permette ai padri di famiglia mal pagati di arrotondare le entrate, visto anche che la quota di riders (o simili) con un lavoro principale alle spalle equivale al 55% del totale, tra dipendenti a tempo pieno (il 26% visto sopra) ai quali si devono aggiungere i lavoratori autonomi per il 15% e i dipendenti part-time (14%).

Il problema che dovranno risolvere sindacati, aziende e governo è la configurazione di regole compatibili con la rivoluzione digitale in atto e le nuove figure di lavoro subordinato da essa create, non più legate, come previsto dalla normativa attuale, materialmente a un luogo o a una catena produttiva ma nemmeno riconducibili a forme di lavoro autonomo, dalle esigenze diverse e poco tutelate.

Una soluzione di compromesso potrebbe essere fornita dall’adozione di quelle che nel mondo anglossasone vengono chiamate umbrella company, società ombrello che offrono maggiori tutele e protezioni  nel salario e nei contributi pensionistici rispetto alla contrattazione one-to-one. Pietro Ichino, noto giuslavorista ed ex senatore del Pd, parlando di tali società spiega che “prevedono per i fattorini ciclisti un compenso minimo garantito indipendente dal numero delle consegne compiute, un contributo per l’uso e per l’eventuale riparazione della bicicletta e dello smartphone, tutti versati da Deliveroo alla stessa Smart, che li utilizza per il pagamento della retribuzione e dei contributi, per lo più nell’ambito di un contratto di lavoro intermittente”. Tutto questo ottenuto grazie a contratti collettivi stipulati con le singole aziende (la prima è stata proprio Foodora) a miglioramento delle condizione generiche proposte. Di sicuro c’è la certezza che questo argomento rivoluzionerà una parte del diritto del lavoro nel mondo, sperando in meglio per le condizioni generali di chi vi fa parte.

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