Nitide e fortissime sono le sette righe affidate a Facebook dalle suore carmelitane basche, intervenute così (il 26 aprile scorso) sulla vergognosa decisione del tribunale di Pamplona, che ha condannato per abuso cinque uomini che nel 2016 stuprarono una 18enne, assolvendoli però dall’accusa di violenza sessuale in quanto la vittima “non aveva opposto resistenza”.
Noi viviamo in clausura, indossiamo un vestito che arriva quasi alle caviglie, non usciamo mai la notte (tranne per le emergenze), non andiamo alle feste, non beviamo alcolici e abbiamo fatto voto di castità. È una scelta che non ci rende migliori o peggiori di nessuno, sebbene paradossalmente ci renda più libere e felici di molte. E proprio perché è una scelta libera, difendiamo con tutti i mezzi a nostra disposizione (e questo è uno di quelli) il diritto di tutte le donne di fare liberamente il contrario senza per questo essere giudicate, violentate, intimidite, assassinate o umiliate. Sorella, io sì ti credo.
Questa inedita ed esplicita presa di posizione delle religiose, che deliberatamente usano in chiusura l’hashtag #HermanaYoSiTeCreo lanciato per sostenere l’indignazione globale contro la sentenza, ha creato comprensibilmente molto scalpore e sta facendo il giro del mondo.
La decisione del tribunale è di per sé una notizia incresciosa, non nuova purtroppo quando i casi di stupro arrivano sui banchi dei tribunali. Molti sono i fatti inquietanti legati a questa vicenda di violenza: i cinque uomini, tra i 27 e 29 anni, si firmavano – prima di essere arrestati – come “il branco” (la manada) nel gruppo Whatsapp creato per vantarsi per aver violentato e filmato la giovane, all’inizio della settimana del festival di San Firmino nel 2016.
In un primo tempo era stata chiesta una pena di oltre 20 anni, ma nei giorni scorsi ecco la decisione di comminare da cinque a nove anni di carcere e il divieto di avvicinarsi a meno di 500 metri dalla vittima e contattarla per 15 anni. I componenti del branco grazie a questo notevole sconto di pena – e soprattutto a causa della cancellazione dell’accusa di stupro – potrebbero uscire dal carcere nei prossimi mesi. Questo brusco cambio di direzione ha scosso l’opinione pubblica globale, e la Spagna ha visto scendere in piazza migliaia di donne e di uomini per protestare.
Accanto alla notizia della presa di parola delle suore questa vicenda offre uno spunto di grande importanza per riflettere, concentrato nella scelta del titolo della campagna di sdegno e denuncia: “Io ti credo” non sono tre parole scelte a caso.
Mettono in causa la costante assenza di credibilità delle donne nei casi di denuncia di violenza. Oltre all’altrettanto diffuso pregiudizio che vuole le donne istigatrici delle aggressioni (fatevi un giro nel lungo report che ho scritto il 24 aprile scorso per MicroMega su una recente formazione in una scuola pubblica italiana) il richiamo planetario dell’hashtag punta il dito sulla ostilità delle corti di giustizia, quando si deve sentenziare sullo stupro.
Come opportunamente ricorda la rete di giornaliste Giulia, in Italia si è dovuto attendere fino al 1996 per uscire da un sistema giuridico che definiva “reato contro la morale” la violenza sessuale. Tanto per evocare quanto sia lontana la credibilità delle vittime nei tribunali italiani non dobbiamo tornare alle immagini di Processo per stupro del 1979, che per la prima volta portarono (attraverso la Rai) nelle nostre case l’iniquità del sistema giudiziario quando a subire violenza sono le donne: nel 1999 una sentenza italiana che fece il giro del mondo affermò che portare i jeans è incompatibile con lo stupro; nel 2013 un ex militare fu “condannato” a 8 anni (ma ai domiciliari) per la violenza carnale su una studentessa, visto che era decaduta l’accusa di tentato omicidio; last but not least, agli inizi del 2018 è andato in scena il triviale interrogatorio delle studentesse americane violentate dai due carabinieri, che si sentirono chiedere se avessero indosso biancheria intima.
In tutti questi casi – e solo per citarne pochi – la costante è il capovolgimento della situazione, che rende le vittime responsabili della violenza che hanno subito, negando loro (e per traslato a ogni donne violata che denunci), la credibilità che invece non si nega mai alle vittime di altri efferati delitti. Se persino le suore di clausura sentono il dovere di ribellarsi a questa ingiustizia planetaria forse la misura è davvero colma?