Girare in bici o motorino per consegnare pizze e sushi non è più solo un lavoretto da universitari. Ecco le storie di ex dipendenti che per arrivare a fine mese si mettono la pettorina di Deliveroo, Foodora & c. Raccontano le settimane di 80 ore di lavoro ("poi un suv mi ha messo sotto"), la guerra per i turni, l'ansia per le "statistiche di affidabilità". E i bonus offerti a chi non sciopera
“In una domenica di pioggia ho pedalato 115 chilometri. Fatti due conti, ho guadagnato 1 euro al chilometro”. Pietro non si allena per il triathlon ma il fiato ce l’avrebbe, per forza di cose. Da due anni fa il rider per Foodora, su e giù per Torino per quattro o cinque ore al giorno. Quando ha iniziato aveva già passato i 40 e l’azienda in cui lavorava come programmatore l’aveva lasciato a casa. Nel frattempo si è separato e senza gli 800-900 euro netti che porta a casa consegnando pizze e sushi non arriverebbe a fine mese. E’ uno dei tanti: se i giovani restano la maggioranza, girare in bici o motorino per una piattaforma di delivery non è più solo un lavoretto da universitari. Le pettorine di Deliveroo, Foodora, Glovo, UberEats & c – che saranno in prima fila nei cortei del Primo maggio a Milano e Torino – le indossano anche ex dipendenti e professionisti che faticano a tirare avanti e pagano l’affitto improvvisandosi fattorini per pochi euro all’ora. Sono la frangia più debole di un mercato del lavoro ad alto tasso di precariato, con più di 500mila “somministrati” (gli ex interinali) che in un caso su tre vengono chiamati per incarichi di un solo giorno e quasi 200mila collaboratori che si arrabattano con incarichi da meno di 5mila euro l’anno.
“Le piattaforme vogliono pagare a cottimo. E scegliere i più veloci e disponibili” – Dati ufficiali sull’età degli oltre 5mila rider attivi in Italia non ce ne sono. Ma una ricerca Uil sull’intera “gig economy” – che comprende anche le piattaforme su cui si comprano e vendono a basso costo lavoretti di traduzione, editing, grafica e simili – mostra che il 28% dei lavoratori on demand ha più di 35 anni. “A Torino”, dove di recente i giudici hanno negato a un gruppo di fattorini Foodora l’equiparazione a dipendenti a tutti gli effetti, “ho conosciuto un ex ingegnere della Ibm lasciato a casa a 50 anni. Adesso fa le consegne”, racconta Giorgio Airaudo, ex segretario della Fiom-Cgil, che l’anno scorso nelle vesti di deputato di Sel ha firmato una proposta di legge per l’equiparazione di queste prestazioni “organizzate o coordinate dal committente” al lavoro subordinato. “Del resto le piattaforme di delivery puntano a scaricare tutto il rischio di impresa sui lavoratori: non si fanno carico nemmeno dei mezzi di trasporto, pretendono di pagarli a cottimo e pure di scegliere i più veloci e sempre disponibili“. Come può esserlo chi non trova altro, magari perché ha perso il posto dopo i 40 anni o è un migrante.
Giulio, 43 anni: “Ho rifiutato di lavorare un’ora sola. E la mia affidabilità è calata del 6%” – In effetti è tutta questione di disponibilità. Lo dimostra il messaggio che Giulio (come negli altri casi non è il suo vero nome) ci manda a tarda sera, dopo l’intervista. “Avendo rifiutato di lavorare oggi per un’ora sola, la mia statistica affidabilità e diminuita. Schiavi di un algoritmo“. Segue screenshot del suo smartphone. E’ la schermata della app con cui Deliveroo comunica i turni e da alcuni mesi tiene traccia se accetti di lavorare nei weekend, negli orari in cui la domanda è più alta e anche, appunto, per un’ora sola. Che significa guadagnare, quel giorno, circa 8 euro netti. Se dici no il tuo “rating” si abbassa. E quello di Giulio, 43 anni, rider dal settembre 2017, è appena sceso dal 100 al 94%. L’altra variabile che conta è la “partecipazione durante le sessioni con maggiore richiesta di lavoro”. Più quelle che la app definisce “le tue statistiche” calano, “meno chance hai di scegliere gli orari per te più comodi”, spiega Giulio. “I turni settimanali si possono chiedere a partire dalle 11 di lunedì. Ma io potrò prenotarmi solo dalle 15“. C’è di peggio: se ti fanno slittare alle 17, ti restano solo le fasce peggiori.
“Avevo una pizzeria, ora le pizze le consegno” – Giulio a fare il rider ci è arrivato dopo vent’anni nel mondo della ristorazione. “A un certo punto avevo aperto una pizzeria in centro a Milano. Ma le cose sono andate male, due anni è finita in liquidazione. Per un po’ ho lavorato in nero per un locale fuori Milano e per andarci ho comprato lo scooter. Lasciato quel lavoro, per metterlo a reddito ho pensato di mettermi a fare consegne. Prima per una società postale privata, che mi dava 800 euro al mese in nero per otto-nove ore al giorno in mezzo al traffico senza pause”. Dopo cinque mesi ha mollato. Adesso per arrivare a fine mese, insieme alla compagna che è impiegata in un call center, ha diversificato. “Al mattino lavoro al nero per una panetteria: porto pane e focacce ai ristoranti della zona e, in pausa pranzo, consegno negli uffici. Prendo dieci euro all’ora, in tutto arrivo a 150 euro alla settimana. E la sera faccio i turni per Deliveroo. Mi danno un rimborso benzina, ma non basta mai. Il contratto telefonico me lo devo pagare io. Niente contributi, perché siamo collaboratori occasionali, e se mi faccio male non ho nessuna copertura. Le mance? In centro non la lascia nessuno, nei quartieri popolari va un po’ meglio. A fine mese prendo dai 300 ai 500 euro, non di più, anche perché è la app a decidere quanto lavoro. Magari chiedo di fare quattro ore ma a loro ne serve solo una”.
“70-80 ore a settimana. Poi mi ha travolto un suv” – Il meccanismo del “rating delle prestazioni” ha esasperato anche Domenico, 37 anni, ex salumiere in un supermercato. “Nel 2016 sono stato io a scegliere di aprire partita Iva e lavorare per Deliveroo: mi era comodo avere più flessibilità per andare a trovare mio figlio a Roma. E guadagnavo bene, anche 2.400 euro, pedalando per 70-80 ore a settimana. Ma adesso, con questi turni decisi dal computer, non ho più nessuna sicurezza su quanto riuscirò a portare a casa. In più ho dovuto passare allo scooter perché ho fatto un brutto incidente. Ero stanco, a un incrocio non ho visto un suv che stava arrivando e mi ha preso in pieno. L’assicurazione? Ce l’abbiamo, ma c’è una franchigia da pagare e non sono ancora riuscito a sapere la cifra”. Morale: da settembre Domenico intende tornare dietro un bancone, con una paga fissa. Le consegne, nel caso, le farà solo per arrotondare.
“Non mi chiedono neanche un certificato medico. E pedalo 4 ore al giorno” – Pietro ha la stessa età di Giulio e lavora per Foodora dal luglio 2016. Per lui niente scooter. Le consegne le fa in bici. “Per fortuna ero abituato, perché se non sei allenato è un massacro“. All’inizio prendeva 5 euro all’ora, poi l’azienda ha introdotto il cottimo: paga in base alle consegne fatte. “In un primo momento ho rifiutato. Poi, dopo la mobilitazione dei colleghi, il compenso a consegna è salito a 4 euro lordi. A quel punto ho ricominciato. Per 4-5 ore al giorno sulla bici prendo in media 800-900 euro netti, a volte anche di più. Ovviamente dipende da quante ore mi danno. E sono loro a decidere. Adesso che noi rider siamo tanti (e ci sono anche persone più grandi di me) è una guerra: più sei disponibile più ti fanno lavorare”. Foodora inquadra i lavoratori con un contratto cococo, per cui paga i contributi. “Quando mi sono fratturato il mignolo l’Inail mi ha coperto. Ma se mi ammalo e sto fermo sono cavoli miei. E non ti chiedono neanche un certificato medico, nonostante pedaliamo per ore con la loro pettorina: domenica scorsa pioveva e ho fatto 115 km di seguito. Non mi lamento, almeno riesco a conciliare il lavoro con i weekend in cui mi occupo di mia figlia. Però non potrò certo farlo fino ai 70 anni”. Il Primo maggio Pietro fa sciopero. Rinunciando al bonus di 15 euro a turno promesso dall’azienda a chi si presenterà puntuale per le consegne anche nel giorno della festa dei lavoratori.