Nei giorni in cui i partiti usciti vittoriosi ancora non sono riusciti a formare un governo, in cui l’Italia che lavora ancora non sa chi ne determinerà il traino dell’economia, in cui le speranze di chi invece il lavoro non lo ha vengono blandite da proposte di reddito per tutti, è terminata un’edizione record per il Salone del mobile, ormai diventato il più importante evento espositivo italiano: +17% rispetto al record del 2016, più di 430mila presenze da 188 Paesi.
Un Salone che non è solo attività fieristica ma rappresentazione di come la cultura del lavoro di cui è innervato il tessuto produttivo italiano e la capacità di operare in squadra possano produrre risultati straordinari.
L’unicità e l’importanza dell’evento lo rendono l’esempio migliore dell’Italia che funziona, dove industria, lavoratori e istituzioni procedono insieme in nome di un fine comune di sviluppo, cui si aggiunge un mondo fatto di creatività, innovazione e cultura che mai si lega cosi ad altre occasioni di sviluppo economico.
Questo unicum di successo ha come principale protagonista una città che ne è il fulcro: Milano. Quello che i numeri non possono raccontare è, di fatto, quello che la città nei giorni del Salone rappresenta per i milanesi stessi, per tutto il Paese e i visitatori che la invadono: la città delle opportunità, degli incontri, della creatività, dell’allegria.
Chi non vi è stato almeno una volta in questi giorni non può capirlo e può essere portato a pensare che ciò che ruota intorno all’esposizione sia un insieme di glamour, social media e struscio. Dietro al lato piacevole della Design week vi è invece un settore che rappresenta il 5% del Pil, conta 79mila imprese e dà lavoro a 320mila persone.
Detto questo, in un’Italia che vive di poche speranze e di rimpianti, in cui la fiera del lamento seduce gran parte della società, se la Design week vuol dire un flusso continuo di giovani (creativi e non), un pullulare di mostre, di cortili aperti, la rinascita di spazi, l’attrazione di turisti e talenti da tutto il mondo, essa è benvenuta e benefica per tutta la città.
Quest’ultimo tema poi è centrale nel ruolo che Milano dovrà svolgere per il futuro del Paese, in un secolo in cui le città domineranno la scena economica e produttiva e saranno la calamita attrattiva di opportunità, investimenti, aziende e persone. Il futuro delle città nella competizione globale – e quindi il benessere dei cittadini che in queste vivranno: dipenderà da come sapranno attrarre i grandi capitali, i migliori cervelli, gli studenti, i migliori innovatori, imprenditori, creativi, professionisti, lavoratori e su di essi basare la propria crescita economica; a beneficio anche dei quartieri e delle fasce di popolazione che invece sono rimaste indietro.
Nell’Italia uscita con fatica dalla più grande crisi della storia, dove la crescita è ancora a macchia di leopardo e vede intere aree del Paese arrancare, svuotarsi di giovani, non offrire prospettive, non dobbiamo aver paura di dire che Milano deve avere l’ambizione di essere sempre di più il traino del Paese e lo può fare soltanto con una chiara strategia decennale di attrazione di investimenti, di imprese e di persone da tutto il mondo.
Così come Expo ha dato una svolta e una spinta alla sua vocazione internazionale – facendo capire ai milanesi come la nostra città potesse tornare ad essere al centro dell’Europa e del mondo, diventandone ancora più orgogliosi -, allo stesso modo eventi internazionali di successo, migliorati anno dopo anno (come, appunto, la Settimana del design), devono essere ulteriori stimoli e punti di accensione dello sviluppo che dobbiamo immaginare per i prossimi decenni.
Negli anni in cui l’automazione cambierà per sempre il lavoro e in cui i vecchi paradigmi economici rischiano di essere stravolti (così come il ruolo stesso degli Stati nazione), il capitale umano prenderà sempre più centralità e con esso la sua capacità di formarsi e incontrarsi, contaminarsi e crescere.
L’Italia ha il dovere di difendere il suo primato di secondo Paese manifatturiero europeo e se i governi che si succederanno avranno il benessere dei propri cittadini come priorità, questo potrà avvenire soltanto favorendo sempre di più il lavoro e l’impresa, il più lontano possibile da un’idea di decrescita che sarebbe felice solo per una risicata minoranza che non ne risentirebbe gli effetti.
Ma per fare ciò dovrà mettere in atto politiche industriali che favoriscano sempre più gli investimenti, sia delle imprese italiane – su cui si è basata la creazione di benessere degli ultimi 60 anni – che (ancor di più) delle imprese, dei fondi e dei privati stranieri, che vedono ancora troppo il nostro Paese come il luogo in cui passare splendide vacanze ma non come quello in cui investire e in cui sviluppare il proprio futuro.
Ma questi investimenti non saranno mai nulla se non vi sarà l’azione del capitale umano che poi li dovrà fruttare. Capitale umano, persone che vorrei vedessero sempre di più l’Italia (a partire da Milano) come il luogo in cui decidere di venire a studiare, iniziare a lavorare, creare la propria impresa, mettere su casa e famiglia, condividere tempo, idee e intuizioni.
Se la Milano e l’Italia che sapremo offrire loro avrà lo spirito vissuto nella settimana del Salone, questo sarà possibile e ne gioveremmo tutti, perché di un’economia vivace, aperta, innovativa e in crescita beneficerebbero anche coloro che da questo flusso – per motivi anagrafici, geografici o di censo – si sentano già esclusi.