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Non ricordo precisamente il nome del luogo. Anche perché non è che fosse un città o comunque un centro abitato: solo uno spiazzo con delle tende, ai margini della strada, alcuni muri tirati su con il cemento e capre, galline, cani, un forno per il pane, secchi e bidoni e stracci e polvere e il bucato steso ad asciugare. E questa ragazza, in mezzo, che invece ricordo bene: una ragazza che si era appena laureata. In giurisprudenza. All’università di Ramallah. E adesso stava lì, in mezzo alle capre e ai bidoni e gli stracci.

E forse è un luogo che neppure ha un nome, perché in realtà l’Area C della West Bank è un po’ tutta così. Nel 1993, gli Accordi di Oslo hanno suddiviso i territori palestinesi in zone con diversi livelli di autogoverno: e nell’Area C l’autogoverno è zero, nel senso che l’Area C – che è circa il 60% della West Bank – è sotto completo controllo israeliano. Perché è l’area al confine con la Giordania e secondo Israele è irrinunciabile: gli garantisce profondità strategica. Spazio, cioè, in caso di invasione.

Oggi è abitata da 300mila palestinesi, e 325mila coloni. Ed è una zona arida sostanzialmente, ma bellissima, maestosa, una zona di colline brulle e assolate, tutte pietra e ulivi. Attraversata da questa strada tutta curve. E l’occupazione, qui, è l’occupazione di sempre. Mentre a Ramallah le cose sono cambiate e l’occupazione oggi è molto più sofisticata – si basa sulle leggi e sull’economia, più che sulla forza – qui invece è come all’inizio: è il tentativo di sottrarre terra ai palestinesi metro a metro. E quindi anche la resistenza è quella di sempre.  Significa restare inchiodati qui. Ma proprio in senso letterale. Non si esce mai tutti insieme: dovessero entrarti i coloni in casa. A Hebron, certe volte, torni e te li trovi piazzati sul divano in soggiorno. E quindi, l’unica è restare qui. Anche se ti sei appena laureato. E qui stai in mezzo al nulla.

Ovviamente, l’Area C è amatissima dagli attivisti internazionali. Perché coincide perfettamente con la loro idea del conflitto e (prima ancora) degli israeliani e dei palestinesi: il colono fanatico contro il povero beduino che ti offre il tè intorno al fuoco. Sembra tutto chiaro, qui. Qui è facile schierarsi. Assegnare il torto e la ragione. E non è che mi sfugge la differenza tra uno che sta qui per rubare la terra e uno che sta qui per difendere la terra: ma a guardarli, in certi momenti, per certi versi, israeliani e palestinesi, onestamente, mi sembrano identici. Asserragliati qui tra queste colline adatte solo alle capre. Gli uni nelle tende, gli altri nelle roulotte: ma entrambi a tirare su l’acqua dal pozzo. In mezzo al nulla. Mentre il mondo, intanto, dagli spalti fa il tifo. E tutti passano, bevono il tè, accarezzano questi bambini di stracci e incitano i ventenni a restare qui. Anche se per una neolaureata, non ha il minimo senso.

Ma cosa mai può risponderti? I palestinesi dipendono dagli aiuti internazionali. Recitano il ruolo che sono tenuti a recitare. E invece tanti, ormai, tantissimi, da zone come queste vogliono solo andarsene. E non perché sono dei traditori. Solo, per lo stesso motivo per cui dalle nostre terre dell’osso siamo andati via tutti anche noi: perché i tempi cambiano.
E se stai qui, forse non perdi la terra: ma di sicuro intanto perdi la vita. Ti dicono: “esistere è resistere”. Ma dopo un po’, capisci che è solo una frase a effetto. Capisci che esistere male è resistere male. Come a Gaza.

Non è più il 1948. Non è più il 1967, e né il 1993. Questo è uno stato unico, ormai, Israele negli ultimi anni ha costruito ovunque. Non è più la battaglia di una volta. I palestinesi oggi non hanno bisogno di bravi pastori ma di bravi avvocati. No, la differenza tra i due non mi sfugge. Ma in certi momenti, guardo israeliani e palestinesi e mi viene in mente solo James Joyce. “Let my country die for me“.

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