Circa 60 giorni per formare un governo sono troppi? Per il momento, non ci sono differenze sostanziali con quanto accaduto nella Prima e Seconda Repubblica. Se poi guardiamo agli altri paesi, l’Italia non è neanche un caso così eccezionale.
di Luigi Curini e Luca Pinto (Fonte: lavoce.info)
Stessi tempi per Prima e Seconda Repubblica
Sono ormai trascorsi due mesi dalle elezioni del quattro marzo e poco meno dalle dimissioni del governo Gentiloni, presentate il 24 marzo, ma la formazione del nuovo esecutivo appare un traguardo ancora lontano. Eppure, la necessità di dare un governo al Paese in tempi brevi era esigenza spesso richiamata già ben prima della tornata elettorale – durante la negoziazione della nuova legge elettorale, ad esempio. Ma davvero l’attesa rappresenta un caso eccezionale?
Una prima risposta alla domanda possiamo desumerla dall’osservazione dei dati relativi alla storia politica italiana. Scopriamo così che, dal 1946 al 2016 (ovvero dal secondo governo De Gasperi fino al governo Renzi), sono stati necessari in media 32 giorni per portare all’insediamento di un esecutivo (facendo partire il contatore dalla data in cui il precedente governo è terminato), senza differenze sostanziali fra la tanto vituperata Prima e l’altrettanto criticata Seconda Repubblica. Se poi consideriamo i tempi necessari alla formazione dei soli esecutivi nati dopo le elezioni – escludendo quindi quelli infra-elettorali – il dato sale a 67 giorni, anche in questo caso senza differenze significative tra prima e dopo il 1994.
Se quindi questo è il termine di paragone cui guardare, la situazione attuale appare, almeno per ora, seguire il solito tran tran (figura 1).
Possiamo d’altra parte valutare l’incertezza di queste settimane, almeno in termini di durata, facendo ricorso all’analisi comparata. Non sarà un dato eccezionale per l’Italia, ma con l’estero come la mettiamo? Anche in questa prospettiva, però, il nostro paese mostra un andamento non così atipico: la media registrata nei 29 Paesi europei considerati nella figura 2, dalla prima elezione democratica del dopoguerra al 2016, è infatti di 26 giorni di contrattazione per la formazione di ciascun esecutivo. Si collocano sopra questo dato, oltre all’Italia, Paesi con caratteristiche istituzionali e sistemi elettorali tra loro molto diversi, come Austria, Repubblica Ceca, Belgio, Bulgaria, Portogallo, Slovenia, Spagna e Olanda (dove in media sono richiesti più di 80 giorni per la formazione di un esecutivo). Insomma, il mito secondo cui nelle “democrazie che (loro sì che) funzionano” sia sempre possibile sapere già all’indomani delle elezioni chi governerà, con compagine di governo annessa, è per lo meno in alcuni casi da riconsiderare.
Se è vero, poi, che nell’Italia del dopoguerra si sono “persi” nella formazione dei diversi esecutivi complessivamente oltre 2.200 giorni – ovvero più di una intera legislatura – il dato va letto come il risultato non tanto della durata delle singole contrattazioni, quanto come il prodotto della scarsa tenuta degli esecutivi. È infatti la limitata durata dei governi, e dunque la frequenza delle fasi di negoziazione, la vera specificità della storia politica italiana. Peraltro, anche da questo punto di vista l’Italia non rappresenta un caso così unico, essendo noi in compagnia, con dati non drammaticamente diversi, di Olanda, Belgio, Austria e Finlandia.
Quando il quadro è incerto e complesso
Una volta chiarito che la durata dell’attuale fase politica non presenta caratteristiche di novità, non possiamo neanche escludere che sia destinata a prolungarsi ancora. La scelta di ricorrere a ben due mandati esplorativi fa pensare, del resto, che si voglia procedere con cautela. E non è da escludere che, come accaduto più volte in passato, si possano succedere diversi preincarichi prima che i vari round di contrattazione portino a un esito positivo.
Per la letteratura politologica, infatti, la durata della contrattazione di un governo cresce all’aumentare dell’incertezza – derivante dall’assenza di precedenti storici cui i partiti vecchi e nuovi possono rifarsi nel definire le loro strategie e da una conoscenza imperfetta degli obiettivi e delle preferenze degli avversari – e della complessità dell’ambiente di contrattazione – data dal numero e dalla eterogeneità ideologica degli attori potenzialmente coinvolti. E incerto e complesso è senz’altro il quadro prodotto dai risultati elettorali del 4 marzo. Ma, attenzione, anche qua l’eccezionalità (politica) italiana spesso sbandierata, con tanto di richiami pressanti a “fare presto”, appare in realtà molto più normale di quello che si pensi: in tempi assai recenti sia la Germania sia l’Olanda si sono infatti trovate a dover gestire un quadro altrettanto problematico, per ragioni sostanzialmente simili a quelle italiane attuali.