Per il Centro studi di viale dell'Astronomia la misura anti povertà proposta dal M5s è troppo generosa e non incoraggia a trovare un'occupazione. Per questo auspica una "seria valutazione" dei risultati ottenuti con il Reddito di inclusione - e eventualmente un aumento delle risorse stanziate - prima di sostituirlo con un nuovo strumento
Il reddito di cittadinanza non solo costa molto – “30 miliardi di euro o più secondo varie stime, rispetto ai già elevati 17 miliardi prospettati dal M5S” – ma potrebbe “comportare uno spreco ingente di risorse pubbliche, poiché verrebbe concesso anche a individui che poveri non sono“. Lo afferma il Centro studi Confindustria in un rapporto sulla misura contro la povertà proposta dai pentastellati. Il documento sottolinea che sarebbe sbagliato “affrettarsi a sostituire” il reddito di inclusione (Rei) messo in campo dal governo Gentiloni con uno strumento il cui “alto rischio” è di “disincentivare il lavoro, dato l’elevato importo del beneficio e l’assenza di un meccanismo di cumulo con il reddito da lavoro“. Inoltre, si legge nella nota, la proposta M5s “per incentivare la partecipazione prevede solo l’obbligo di iscrizione ai Centri per l’Impiego, strutture che necessitano di una profonda e costosa riforma per poter garantire risultati apprezzabili nel facilitare l’avviamento al lavoro”.
Il report, diffuso due mesi dopo le elezioni politiche, contiene critiche molto più tranchant rispetto alle dichiarazioni post voto del presidente di Confindustria Vincenzo Boccia, che aveva sospeso il giudizio in attesa di capire “quanto è la quota in termini di costo per lo Stato e quindi quanto incide dal punto di vista di deficit e debito pubblico”. In Italia, è la premessa del Centro studi, la povertà è cresciuta molto con la crisi con 1,6 milioni di famiglie in povertà assoluta per un totale di quasi 5 milioni di individui. E l’indigenza “è legata a doppio filo alla bassa partecipazione al mercato del lavoro”. Da gennaio è attivo il Reddito di inclusione, uno strumento universale di contrasto alla povertà su scala nazionale. Il Rei, ricorda viale dell’Astronomia, “è disegnato per raggiungere le famiglie in povertà, attraverso soglie di accesso sia reddituali sia patrimoniali”. Tuttavia “è partito con scarsi finanziamenti (2,1 miliardi di euro nel 2018) e si stima che potrà coprire solo la metà della platea”.
Il reddito di cittadinanza secondo la proposta avanzata dal Movimento Cinque stelle nel 2013 coprirebbe una platea più ampia (2,8 milioni di famiglie) e garantirebbe un beneficio molto più elevato, fino a 780 euro mensili per un single rispetto ai 188 del Rei. Ma “pur prevedendo assegni di 4 volte più generosi rispetto al Rei, si caratterizza nella proposta attuale per una scarsa precisione nella definizione dei requisiti reddituali di accesso e per la mancanza di soglie patrimoniali, fattori che comporterebbero l’erogazione a favore anche di individui che poveri non sono, abbassando l’efficacia in termini di targeting agli indigenti. Ciò a fronte di una spesa che secondo varie stime potrebbe raggiungere o superare i 30 miliardi (rispetto ai già elevati 17 miliardi prospettati dal M5S)”.
Confindustria contesta la scelta di prevedere un contributo pari al 60% del reddito mediano netto, pari alla soglia di povertà relativa. Il livello, scrive il Centro studi, “dovrebbe essere non troppo alto, per evitare il rischio di un ampio impatto negativo sull’offerta di lavoro e sull’occupazione regolare, ma non troppo basso, almeno tale da garantire “un’esistenza dignitosa“. Un riferimento opportuno è la “soglia di povertà assoluta”, pari al valore monetario di un paniere di beni e servizi considerati essenziali, definito in base all’età e al numero dei componenti della famiglia, all’area geografica e alla tipologia del comune di residenza: ad esempio per un single la soglia di povertà è pari a €818 mensili se risiede in un’area metropolitana del Nord, a €787 se vive al Centro e a €611 se in una città del Mezzogiorno; scende a €522 se risiede in un piccolo comune del Sud”.
Per questi motivi, secondo il Centro studi, “ad oggi affrettarsi a sostituire uno strumento appena partito significherebbe creare incertezza e allungare i tempi di implementazione. Più opportuno darsi il tempo per condurre una seria valutazione, specie delle modalità di attivazione al lavoro, e nel frattempo indirizzare le risorse per aumentare platea e beneficio”.