Una tormenta di neve e vento che può ridurre la visibilità da 200 a 0 metri in 30 secondi, con raffiche superiori ai 100 chilometri orari. È il fenomeno del ‘whiteout‘, una condizione estrema in cui si è trovato, durante la traversata della haute route Chamonix-Zermatt, il gruppo di escursionisti italiani, cinque dei quali sono morti. “Se ti trovi in Antartide è grave però non hai dei crepacci, mentre in montagna sì – spiega l’alpinista altoatesino Reinhold Messner – Con il vento forte e il freddo se non hai un’esperienza estrema perdi la testa. La bufera ti butta giù e la morte è la conseguenza”.
“Impossibile vedersi i piedi” – “Quanto ti trovi nel whiteout, una sorta di nebbia di neve e vento gelido fortissimo, non c’è colpa, perché non si vede più niente”, continua Messner. “Da quello che ho capito le condizioni erano queste e purtroppo è accaduta una tragedia. In quelle condizioni se metti una mano sul viso, la vedi, ma i piedi no – aggiunge – Basta essere a 100 metri da un rifugio ed è impossibile trovarlo”. Per il noto scalatore, 73 anni, il primo uomo a scalare l’Everest senza ossigeno supplementare, il whiteout non è un fenomeno sconosciuto: “È una condizione che io ho vissuto almeno cento volte, ma il problema è che se ti trovi in Antartide è grave, però non hai dei crepacci, mentre in montagna sì. Con il vento forte e il freddo, come ho capito che è successo in Svizzera, se non hai un’esperienza estrema perdi la testa – racconta – La bufera ti butta giù e la morte è la conseguenza. Pensiamo che i vestiti, le scarpe e i gps che ci sono adesso ci rendano sicuri, ma la montagna è sempre pericolosa. Servono se puoi arrivare al riparo, ma se ti fermi non bastano come aiuto”.
“Una gita da non fare” – Fin qui, le tremende conseguenze del fenomeno atmosferico. A raccontare le ore che hanno portato alla tragedia in Svizzera è stato Tommaso Piccioli, tra i sopravvissuti nel gruppo di 14 persone, che ha parlato di diversi errori e scelte sbagliate: “Era una gita difficile, da non fare in una giornata dove alle 10 sarebbe iniziato il brutto tempo. Abbiamo sbagliato strada quattro o cinque volte. Poi ho portato avanti il gruppo io perché ero l’unico ad avere un gps funzionante“. Ma il whiteout, con le sue raffiche di vento, ha reso impossibile procedere e il gruppo ha deciso di fermarsi. Anche in questo caso Piccioli parla di un errore: “Ci siamo fermati in una sella, quando c’è il vento bisogna fermarsi in un punto riparato e scavare un buco”. Piccioli è riuscito a salvarsi “restando sveglio, perché in quelle situazioni se ti addormenti sei finito: l’ipotermia ti prende e ti uccide. Bisogna muoversi, muoversi, respirare e solo pensare di non morire“, ha spiegato.
Morti a 550 metri dal rifugio – Proprio a causa del cattivo tempo domenica la comitiva aveva deciso di accorciare il percorso verso la cabane des Vignettes. Una scelta che ha costretto il gruppo a salire molto di quota: “Hanno cambiato percorso nella speranza di raggiungere il rifugio ancora con il bel tempo – ha spiegato Giovanni Paolucci, fratello di Elisabetta, una delle tre vittime bolzanine – ma a 550 metri dalla meta sono rimasti bloccati dalla tempesta”. L’uomo ha riportato quanto saputo dalla polizia dal canton Vallese, che ha aperto un’indagine per capire se ci sono responsabilità nella tragedia: “800 metri di dislivello in salita e 1.000 in discesa non sono davvero tanti, il problema è stato la quota, visto che il punto massimo si trovava a 3.800 metri, che mi sembra un po’ tanto”, ha aggiunto Paolucci, che come la sorella è uno scialpinista esperto. “Le foto scattate alle 9 del mattino – ha raccontato – mostrano il cielo sereno, mentre due, tre ore dopo è arrivata la tempesta con raffiche a 100 chilometri orari”.