“Ti ho mandato un’ambasciata da chi di dovere. Avete rotto i coglioni davanti allo stadio”. Era il 10 dicembre 2015 e i tifosi dell’Asti Calcio, squadra dilettantistica, protestavano contro la gestione del club. Giuseppe Catarisano prende il telefono e chiama il portavoce del gruppo “Vecchie maniere” intimandogli di stare buoni: “Deve finire ‘sta storia”, gli dice prospettando conseguenze negative. È una delle frasi intercettate dal Nucleo investigativo dei carabinieri di Asti (guidato dal maggiore Lorenzo Repetto e dal comandante provinciale Bernardino Vagnoni) che oggi ha arrestato 26 persone, la maggior parte delle quali indagate per associazione a delinquere di stampo mafioso. Tra di loro c’è anche Catarisano, imprenditore edile ritenuto un “capo promotore” dell’organizzazione criminale. Altre 48 persone risultano indagate.
Sono i primi esiti dell’inchiesta “Barbarossa”, da cui è emersa l’esistenza di una struttura territoriale della ‘ndrangheta, una “locale”, dedita alle estorsioni ai danni di imprenditori. L’indagine – che ha permesso il sequestro di diverse armi – è partita nel maggio 2015 e ha messo in fila una serie di episodi come le intimidazioni al titolare di un bar che non aveva ceduto alle richieste di denaro e nel 2012 era stato colpito da alcuni colpi di fucile. C’è poi la violenta aggressione compiuta, secondo chi indaga, da Catarisano a un giovane di Rosarno che aveva cercato di rubare un furgone, episodio per il quale a gennaio l’imprenditore è stato condannato a quattro anni di carcere. Infine c’è anche un omicidio avvenuto nel gennaio 2013, quello di Luigi Di Gianni, per il quale sono a processo il figlio di Catarisano, Ferdinando (arrestato oggi), e suo cugino Ivan Commisso.
Secondo i pm Paolo Cappelli e Stefano Castellani della Direzione distrettuale antimafia di Torino, fanno parte di questo gruppo tre famiglie: gli Stambè, gli Emma e i Catarisano che avrebbero trovato una guida in Rocco Zangrà, da anni ritenuto il capo della ‘ndrangheta nel Basso Piemonte in contatto con le cosche di Vibo Valentia e Lamezia Terme, da dove arrivava la droga da smerciare tra Asti e Alba. Oltre al racket e al narcotraffico “il sodalizio esercitava il controllo del territorio con infiltrazioni mafiose in alcune società di calcio, gestendone di fatto gli impianti usati anche per incontri d’affari”, hanno spiegato questa mattina i carabinieri nel corso di una conferenza stampa. Tra le associazioni sportive locali c’era anche l’Asti Calcio, per anni presieduto dal commercialista astigiano Pierpaolo Gherlone, ex assessore al Bilancio della giunta di Forza Italia guidata da Luigi Fiorio, arrestato nel 2013 (e assolto quattro anni dopo) nell’ambito di un’inchiesta sui fallimenti di alcune società di sicurezza e ora indagato per concorso esterno in associazione mafiosa per i rapporti molto stretti con Catarisano, che lo aiutava a gestire il club biancorosso.
Dopo il suo arresto del 2013 il cda dell’Asti calcio rinnova la fiducia, ma col passare del tempo la situazione si aggrava. Tra il 2015 e il 2016 la società, di cui Gherlone deteneva le quote di maggioranza, retrocede dalla serie D alle Promozione e i problemi economici crescono. Nell’organigramma entrano nuove persone. Nel novembre 2015 Domenico Catarisano, fratello dell’imprenditore edile, ne diventa amministratore delegato e vicepresidente. Alcuni mesi dopo la compagine societaria cambia ancora e nell’agosto 2016 Giovanni Catarisano, figlio di Giuseppe, ottiene l’incarico di amministratore unico e presidente del club. Dietro le quinte, nel frattempo, l’uomo arrestato oggi aiutava Gherlone a gestire i rapporti con i creditori, cercava insieme a Zangrà i finanziamenti con cui pagare i calciatori e teneva a bada gli ultras, come dimostra la telefonata intercettata dai carabinieri. In cambio il presunto boss si inserisce anche nella gestione dello stadio comunale, il cui bar era diventato un punto di incontro per gli “associati” alla locale di ‘ndrangheta. Catarisano aveva anche proposto l’assunzione di Zangrà per fare ottenere al “compare” una misura cautelare attenuata: il presunto capo della ‘ndrangheta del basso Piemonte era finito in carcere il 21 giugno 2011 nell’ambito dell’inchiesta “Albachiara”, nel corso della quale era emerso che aveva ottenuto dal boss calabrese Domenico Oppedisano l’autorizzazione ad “aprire” una nuova locale di ‘ndrangheta in Piemonte. Per quei fatti la Cassazione ha stabilito che Zangrà deve essere nuovamente processato dalla Corte d’appello di Torino che lo aveva condannato. A quel procedimento, ora, se ne aggiunge un altro.