L’ha già detto Franceschini e al Quirinale lo hanno già capito da domenica sera: la direzione nazionale del Pd in programma oggi è stata fissata per decidere un eventuale dialogo con i Cinquestelle e invece parlerà di nuovo della convivenza dentro al partito. Non c’è più sul tavolo il mandato a Maurizio Martina per parlare con Luigi Di Maio. C’è, invece, la stessa investitura del vicesegretario da reggente che duri fino almeno alla prossima assemblea nazionale. E’ chiaro a tutti, tuttavia, che il campo di gioco ha confini più ampi di questo. C’entra il futuro, anche prossimo, del partito. E non è ancora escluso che c’entri ancora con la partecipazione del Pd a un dibattito che porti a un governo, chissà quale. “Si tratta – dice Franceschini – di restituire autorevolezza al partito nel percorso delle consultazioni”. Il ministro è considerato tra gli esponenti del Pd più vicini alle sensibilità del Colle. Un altro è Luigi Zanda che appena ieri ha sottolineato che “l’atteggiamento di Renzi fa molto male al Pd. Oggi i partiti personali sono di moda ma in tutto il mondo funzionano fino a quando il leader vince. Quando si perde in un referendum, alle regionali, alle amministrative, alle politiche, si dimezzano i consensi, i partiti personali perdono”. In sostanza, quando si perde tutto, a un certo punto si toglie il disturbo. Nel primo assalto è andato a punto Renzi, che con l’intervista a Fazio ha tolto dalla discussione la possibilità di un confronto con il M5s. Ma l’ex segretario deve ancora capire se ha ancora la maggioranza nel suo partito, dopo che gli si sono fatti contro Franceschini, Martina, i “governisti” oltre alle minoranze del congresso, quelle di Orlando ed Emiliano. La confusione è tale che in questa maretta ricompare una parolaccia: scissione.
E invece no. Da una parte Renzi ha probabilmente vinto un primo set, grazie al documento buttato giù dal suo Arnaldo, Lorenzo Guerini in cui si chiede “di non fare conte” e si ribadisce il no a un governo “di Salvini o Di Maio“. Una mossa tattica e non strategica che però ha fatto capire l’antifona a tutti gli altri: quella presa di posizione dei renziani ha ricevuto rifiuti quasi sdegnati come quello di Matteo Richetti, ma ha raccolto un quorum di adesioni che ha lanciato un messaggio chiaro. La reggenza di Martina, sostenuta dai dirigenti come Franceschini e Fassino che in questi hanno consentito a Renzi di diventare segretario, può decidere cosa vuole, ma in Parlamento la maggioranza dei gruppi parlamentari segue ancora il vecchio leader come d’altra parte la composizione delle liste dei candidati avevano permesso di comprendere prima ancora del 4 marzo. Alla Camera hanno aderito al documento di Guerini in 77 su 111, al Senato in 39 su 52. E’ vero che bisogna distinguere tra fedelissimi (il prototipo è Marcucci) e più dialoganti (Delrio) Per una maggioranza con i Cinquestelle i gruppi del Pd servono tutti interi. Per una maggioranza col centrodestra, si sottolinea da settimane, no. Ma in quel caso è Salvini che finora ha ribadito sempre che un esecutivo della Lega con Renzi, Boschi e gli altri è impossibile.
Dall’altra parte però non è affatto scontato che Renzi abbia ancora i numeri nella direzione nazionale, uno degli organismi direttivi del partito decisivi per dare la linea. Molto è cambiato rispetto al congresso nel quale l’ex segretario trionfò col 70 per cento, davanti al 20 di Orlando e al 10 di Emiliano. Ma quel 70 è composto da correnti che non sono direttamente legate a Renzi: c’è la componente di Franceschini, per esempio, quella dello stesso Martina e anche quella riconducibile a Walter Veltroni. Proiettato sulla direzione significa che su 209 componenti, la quota che fa riferimento all’ex presidente del Consiglio si abbassa a 117 (e qui stanno anche i 13 Giovani Turchi del presidente Matteo Orfini e i 3 legati a Graziano Delrio), mentre i “non renziani” salgono a 77: 32 sono guidati da Andrea Orlando e 9 da Michele Emiliano, ma poi ci sono i 20 di AreaDem (corrente di Franceschini), i 9 di Sinistra è cambiamento (Martina), un paio di veltroniani. La differenza è di 40. Ma c’è anche una quindicina di membri della direzione che non hanno ancora fatto sapere come voteranno. L’incognita per Renzi è rappresentata da diversi ex parlamentari che non sono stati ricandidati.
Ma soprattutto ci sono i cosiddetti “governisti“, quelli che difendono l’ultima stagione “di basso profilo” del capo del governo Paolo Gentiloni, obiettivo delle polemiche di Renzi, una volta di più, proprio nell’intervista di domenica da Fazio. Nel governo sarebbero a favore di una conferma del mandato al reggente lo stesso premier, Marianna Madia, Roberta Pinotti, Anna Finocchiaro, Marco Minniti. Tra gli amministratori locali Sala, Merola, Zingaretti, Leoluca Orlando, Chiamparino, Bonaccini, Bianco. Ma anche gli ex segretari Veltroni e Fassino. Nomi che secondo fonti “governiste” farebbero dubitare che i renziani abbiano numeri solidi. “Il Partito democratico non è monolitico, può essere che Renzi non abbia la maggioranza in direzione” dice Roberto Giachetti. Il suo leader, Renzi, deve esserselo perso: “E’ un bluff fatto circolare dai non renziani” diceva ad alcuni senatori ieri a Palazzo Madama.
In caso di una conta i renziani si dicono pronti all’assemblea già la prossima settimana per eleggere un nuovo segretario come Lorenzo Guerini o Ettore Rosato e poi andare al congresso al più presto. A quel punto, temono però, i “non renziani” potrebbero convergere su un nome come Matteo Richetti per rompere il fronte renziano. Si proverà a mediare fino al minuto prima di entrare al Nazareno. I renziani propongono di un ordine del giorno che dica no a un governo di Di Maio o Salvini e indichi una data per l’assemblea, con una fiducia implicita a Martina. No, la fiducia dev’essere esplicita, rispondono tutti gli altri.