Dai capelli ai piedi, passando per il seno, il ventre, i genitali: avete mai pensato a come le religioni (cattolica, islamica ed ebraica) sezionano, costringono e ingabbiano il corpo delle donne? Se non lo avete fatto e v’interessa ecco un testo che ve lo racconta, con dovizia di particolari, citazioni dai testi sacri e analisi delle conseguenze sociali che, nei secoli fino ai giorni nostri, si sono incarnate nel dolore della coercizione dei corpi femminili.
Il libro si chiama Anatomia dell’oppressione, per l’editore Anankelab, che ha rispettato nella traduzione la felice scelta di titolo delle edizioni francesi Seuil, ed è stato pensato e scritto da due esponenti di rilievo del gruppo femminista internazionale Femen: Inna Shevchenko e Pauline Hillier.
Difficile è stato portarlo e pubblicarlo in Italia: quando, tornata nel luglio 2017 dalla Secular Conference di Londra (lo straordinario appuntamento internazionale organizzato da attiviste e intellettuali antifondamentaliste nel quale Inna è ospite sin dalla prima edizione nel 2014), mi diressi con certezza verso alcune realtà editoriali schierate sui temi della laicità e lo proposi, trovai la porta chiusa.
Troppo esplicito, diretto, femminista. Forse anche imbarazzante: la ricerca di Anatomia dell’oppressione fotografa senza infingimento la violenza sui corpi delle donne nel mondo nel nome di Dio, Allah e Jahvè. E’ un testo, quindi, troppo coraggioso, scomodo persino per chi si spende su temi sensibili, come il diritto a scegliere come e quando porre fine alla vita, o l’uguaglianza delle famiglie omosessuali con quelle etero.
E poi, senza dubbio, il fatto che la pratica delle Femen insista nell’uso della nudità anche nelle azioni contro i diversi simboli religiosi risulta problematica persino per parte dell’attivismo laico, almeno in Italia.
In Italia, paese cattolico in cui la sinistra non è mai stata capace di guardare in modo complessivo alla questione fondamentalista di stampo islamista, perché bloccata dal timore di fomentare a sua volta il razzismo già parecchio diffuso, è facile spendersi nelle critiche alla religione di casa. Più difficile è criticare la ‘religione delle vittime’ ovvero l’Islam perché, essendo quella di molti migranti, si giustifica la prudenza con la paura di confondersi con i razzisti.
Anatomia dell’oppressione non fa sconti a nessuna delle tre religioni perché nessuna di esse è mai stata benevola con il corpo e la mente femminile, quando gli esseri umani le hanno usate politicamente nello spazio pubblico per sopprimere l’autodeterminazione. Non si tratta di mettere in discussione o di non rispettare la devozione personale ma di svelare la guerra quotidiana nei secoli contro la libertà civile di oltre la metà della popolazione mondiale in nome di un dio assi poco misericordioso, comunque lo si chiami.
Un libro pensato da due nemmeno trentenni che si inscrive a pieno titolo nel solco di testi fondamentali della saggistica femminista, quali De Beauvoir, Rich, Irigaray, Atwood e Friday (solo per citarne alcune) e che con grande emozione, avendone io curato la prefazione, presenterò al Salone del libro di Torino il 12 maggio 2018 con le due autrici, salutandole come giovani e mature eredi del pensiero laico femminista. Dire che ci voleva in questi tempi assai poco laici non è poco.