di Claudia De Martino*
Il 5 di iyar del calendario ebraico (ovvero il 18 aprile scorso) lo Stato di Israele ha festeggiato i suoi primi 70 anni: il regalo, però, arriverà esattamente il prossimo 14 maggio – la data in cui cade la celebrazione internazionale secondo il calendario gregoriano – quando gli Stati Uniti sposteranno la loro ambasciata da Tel Aviv-Yafo a Gerusalemme. Il coronamento di un sogno per uno Stato che ha sempre puntato sul riconoscimento internazionale di quella che reputa da sempre la sua capitale “unica e indivisibile” (Legge fondamentale dello Stato ebraico, 1980) e che riecheggia nelle tradizioni ebraiche da millenni.
Che cosa festeggia Israele con i suoi 70 anni? A scorrere i suoi principali indicatori macroeconomici, Israele è un Paese in ottima salute: il suo Pil continua a crescere più della media europea (del 3,1% nel 2017), le sue riserve estere sono alte e il rapporto Pil/debito pubblico in riduzione costante, mentre la sua economia ha quasi raggiunto il pieno impiego. Se vi aggiungiamo la stima appena redatta dal Taub center for policy studies sul relativo declino dei prezzi al consumo (uno dei problemi sociali più fortemente avvertito dalle persone comuni in Israele, motore delle rivolte del Rothschild boulevard nel 2011), il quadro complessivo sembra più positivo di molte democrazie del vecchio continente.
Tuttavia, l’Istituto di democrazia israeliano (Idi) avverte che vi sono almeno quattro anime principali in Israele con profonde e divergenti visioni sul futuro del Paese:gli israeliani laici, i sionisti-religiosi, gli ortodossi/ultraortodossi e gli arabo-israeliani. Questa divisione è antica, ma rappresenta comunque un campanello d’allarme per la società ebraica, che si scopre sempre più disomogenea, culturalmente e politicamente polarizzata. L’Oecd (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) avvisa anche che – secondo le sue previsioni, nell’ormai vicino 2060 ortodossi e arabi rappresenteranno la metà della popolazione israeliana: un’evoluzione demografica di tutta importanza, se si considerano le basi culturali sulle quali lo Stato di Israele è stato edificato.
Eppure, il quadro non è ancora completo. Il dato che viene costantemente oscurato da tutte queste previsioni è che ne sarà di tutti quei milioni di palestinesi che vivono nei territori sospesi tra la nostalgia indefinibile di un passato che non può tornate (il pre-Nakba) e un futuro che stenta ad assumere alcuna forma. La certezza è che non rimarranno inermi ad attendere le scelte di Israele e che si muoveranno per esercitare su di esso (dall’interno o dall’esterno) una pressione politica sempre più consistente.
La mia previsione è che i palestinesi sceglieranno con sempre più frequenza la via interna, rivendicando la possibilità di appartenere al Paese che li ha militarmente assoggettati, senza però poterne cancellare la presenza. In altre parole – dalle recenti manifestazioni per la Giornata della Terra alle opinioni sempre più frequentemente affermate su autorevoli think-tank palestinesi come al-Shabaka e quotidiani come al-Ma’an – si evince che sempre più palestinesi non credono più nella soluzione dei due Stati ma vogliono “tornare in Israele”, a condizione di diventarne cittadini. Lo slogan di “uno Stato unico, con pari diritti per tutti” è stato sdoganato da Saeb Erekat – storico portavoce dell’Autorità nazionale palestinese – appena Donald Trump ha annunciato il suo disegno di spostare l’ambasciata. Un vecchio militante di Fatah, Radi Jarai, ha fondato anni fa un gruppo – il Movimento popolare per uno Stato democratico – che rifiuta per i palestinesi il destino di apartheid a cui li vorrebbe condannare Israele.
Quella che fino a poco tempo fa sembrava un’ impraticabile ipotesi confinata ad alcuni milieux intellettuali oggi guadagna terreno in campo palestinese, arrivando ad assicurare una quota di consensi pari al 30%, soprattutto tra i più giovani. Se a questa si aggiungono le migliaia di persone che da Gaza spingono verso la frontiera – incarnando a proprio rischio il desiderio di un ritorno non più tanto a una località specifica ma ad uno stato di normalità in cui non siano più prigioniere – e vi si somma anche la presenza silente degli arabo-israeliani – che rappresentano una quota attiva e costantemente in crescita della popolazione israeliana con legami di solidarietà profondi con le altre componenti palestinesi – si comprende bene come il prossimo compleanno a cifra tonda di Israele (100 anni, nel 2048) vedrà probabilmente la celebrazione di un Paese binazionale, che tutti speriamo possa essere un Paese a cui entrambe le nazioni sentano di appartenere pienamente.
*ricercatrice ed esperta di questioni mediorientali