Per molte associazioni ambientaliste è una buona notizia, ma lo stop al piano per otto nuovi inceneritori, su cui ora dovrà esprimersi la Corte di giustizia europea, non risolverà i problemi dell’Italia. L’ordinanza del Tar del Lazio che chiede ai giudici europei di dire la loro sul provvedimento dello Sblocca Italia e congela momentaneamente il piano, infatti, arriva in un momento di emergenza rifiuti su tutto il territorio nazionale, in cui il nostro Paese ha ben poco da festeggiare. Un quadro compromesso, dove l’aumento della raccolta differenziata e quindi dei rifiuti da gestire, la carenza di impianti, la chiusura delle frontiere cinesi alla spazzatura del resto del mondo e il moltiplicarsi dei roghi negli stabilimenti che trattano e stoccano monnezza sono elementi solo in apparenza scollegati tra loro. Basta unire i punti per ottenere un’immagine sconcertante, dove in mancanza di risposte efficaci da parte di chi governa, le soluzioni arrivano sempre più spesso dal malaffare, sotto forma di traffici illeciti e incendi: “Il rifiuto meno lo tocchi e più guadagni. E una volta bruciato, il rifiuto non lo tocchi più”, continua a ripetere chi in questi anni sta indagando sui fuochi.
Tanti rifiuti, pochi impianti
Che succede nel mondo dei rifiuti? Da una parte cresce la monnezza da gestire, dall’altra diminuiscono gli sbocchi. In Italia, infatti, dopo un lieve calo registrato nel 2015, la spazzatura urbana ha ripreso a crescere nel 2016, superando i 30 milioni di tonnellate come non succedeva dal 2011. Volumi a cui vanno sommati quelli molto più alti degli scarti speciali dell’industria, che in confronto sono quattro volte tanto: tra il 2013 e il 2015 sono passati da 124 a 132 milioni di tonnellate. A questi numeri si aggiunge la forte crescita della raccolta differenziata. In soli quattro anni, tra il 2013 e il 2016, è lievitata di 10 punti, passando dal 42% al 52%: numeri che in parte si sono tradotti in maggiori rifiuti rigenerati ma dall’altra hanno inevitabilmente prodotto anche scarti da smaltire. Non tutto quello che viene differenziato dai cittadini, infatti, può essere riciclato e nel frattempo sono in aumento gli imballaggi in plastica impossibili da avviare a seconda vita. Piccole confezioni, contenitori monouso, vaschette, bottiglie opache, imballi multistrato sono tutti rifiuti che oggi possono essere solo bruciati o sepolti in discarica. Una parte di questa montagna di polimeri misti, quello che tecnicamente si chiama plasmix, può essere trasformato in arredi da esterno o componenti per il settore auto, ma gli impianti che oggi li riciclano si contano sulle dita di una mano: economicamente non conviene. Una misura dell’ultima legge di stabilità introduce incentivi per chi acquista prodotti in plastiche miste riciclate. I risultati andranno valutati nel lungo periodo, mentre intanto la legge che impone alle pubbliche amministrazioni di acquistare prodotti rigenerati si taglia le gambe da sola: poteva essere un’occasione per promuovere indirettamente il riciclo, e invece non prevede sanzioni per gli inadempienti.
Nessuna politica di riduzione
Il nodo principale ancora da sciogliere rimane però la prima regola che l’Europa ci ha dato in termini di rifiuti: ridurli il più possibile. Su questo fronte non c’è al momento in Italia una strategia efficace, visto che anche possibili sistemi di vuoto a rendere sono stati ammessi dal ministero dell’Ambiente solo in sperimentazione. Così, la monnezza si moltiplica e l’Italia da sola non riesce a gestirla. Negli ultimi anni, la carta è stata per un terzo riciclata all’estero e molta plastica, soprattutto quella più sporca e di bassa qualità, è finita nel sud Est asiatico, Cina in testa. I rifiuti indifferenziati urbani, quelli speciali e gli scarti delle raccolte differenziate che vanno smaltiti hanno poche scelte. Gli inceneritori italiani, che grazie allo Sblocca Italia possono ora bruciare il massimo consentito dei rifiuti, sono da tempo pieni e hanno portato i prezzi alle stelle. Non resta che rivolgersi ai forni di mezza Europa: lo sbocco si trova sempre con fatica e si paga caro, i tempi di stoccaggio dei rifiuti si allungano e aumentano così i rischi di incendi.
Il fattore Cina
Una filiera traballante e in sofferenza già questa estate, quando il presidente Anci Antonio Decaro e il delegato ai rifiuti Ivan Stomeo avevano scritto al ministero dell’Ambiente per segnalare le difficoltà del sistema e chiedere soluzioni, pena il rischio di un blocco totale della raccolta dei rifiuti dei cittadini. Ma mentre il ministero si limitava a convocare qualche riunione e continuavano i roghi negli impianti pieni di rifiuti stoccati, dalla Cina è arrivato l’elemento che ha messo definitivamente in crisi il settore. A luglio 2017, infatti, il governo di Pechino ha comunicato all’Organizzazione mondiale del commercio la sua decisione di chiudere dal primo gennaio 2018 le frontiere a oltre 20 tipi diversi di rifiuti, mandando nel panico il resto del mondo. Di fronte a questa guerra della monnezza, Bruxelles ha messo in atto un piano per ridurre i rifiuti plastici e rendere tutti riciclabili gli imballaggi in commercio entro il 2030. L’Italia, invece, è stata a guardare. Nessun impianto della filiera del riciclo è stato considerato “strategico” e “di preminente interesse nazionale” come invece sono stati dichiarati nel 2014 gli inceneritori, nessun piano efficace di riduzione dei rifiuti è stato messo in atto, nessuna regola è stata introdotta per imporre alle aziende di usare imballaggi davvero riciclabili. Dal primo gennaio si è assistito solo al pasticcio dei sacchetti biodegradabili diventati obbligatori anche per frutta e verdura.
Il fuoco sgombra i piazzali
“Il rifiuto meno lo tocchi più guadagni. Per questo tante volte arriva il benedetto fuoco. Quello che brucia va in fumo e il fumo non si tocca più”, aveva detto nel 2016 a ilfattoquotidiano.it il magistrato della Dna Roberto Pennisi parlando del fenomeno degli incendi negli impianti che trattano monnezza. Le fiamme servono a sgombrare i piazzali dai rifiuti, tagliando costi ed eliminando il problema alla radice con il malaffare: secondo chi sta conducendo le indagini, quelli frutto del caso sono pochissimi, quasi sempre all’origine delle fiamme c’è il dolo. A due anni di distanza, l’analisi è oggi condivisa e il quadro si è ulteriormente aggravato: dove la legalità non è capace di dare una risposta, il terremo diventa pericolosamente fertile per il malaffare. La relazione della commissione bicamerale Ecomafie sugli incendi, pubblicata a gennaio scorso, ha censito 261 roghi in impianti di gestione dei rifiuti tra il 2014 e l’estate 2017. Negli ultimi 11 mesi, secondo l’ex deputata M5s e poi dei Verdi Claudia Mannino che da tempo monitora il fenomeno, ce ne sono stati 149, uno ogni due giorni.
Dal ministero solo una circolare
Di fronte a un fenomeno così complesso, il ministero dell’Ambiente per ora si è limitato a inviare a Vigili del fuoco, Ispra e forze dell’ordine una circolare di una decina di pagine, con “linee guida per la gestione operativa degli stoccaggi negli impianti di gestione dei rifiuti e per la prevenzione dei rischi”. Ma se, come confermano gli investigatori, quasi sempre il fuoco viene appiccato volontariamente, a che serve un provvedimento di questo tipo? Dopo i decreti per facilitare il riciclo di materiali specifici, attesi da anni e ancora mancanti, lo Sblocca Italia che prevede la costruzione di otto nuovi inceneritori senza fare niente sul fronte del recupero dei materiali, sembra solo l’ennesimo pasticcio. Mentre l’Italia, povera di impianti per gestire i rifiuti (da quelli di trattamento a quelli dedicati all’organico, fino a quelli ahimè ancora necessari di smaltimento), continua ad affogare nella monnezza, e a bruciare.