Scrivere su Cuba non è mai facile, soprattutto in assenza di una stampa che non sia la propaganda del Granma o la faziosità di Miami Herald, portavoce della diaspora cubana. Sull’Isla Bonita c’è chi maledice e chi invece si gode – da posizioni privilegiate – il New Deal. A riprova di una realtà a macchia di leopardo, nella quale è impossibile decifrare il futuro a lungo termine.

Venerdì 20 aprile, il glorioso Granma, icona del PCC (Partido Comunista Cubano) esce in edizione straordinaria con una foto in prima di Raúl Castro che solleva il braccio del suo successore alla presidenza, Miguel Diaz-Canel, designato dall’Asamblea Nacional, dopo un lungo percorso elettorale che ho descritto nel post di marzo. L’articolo di Granma preme sulla continuità della Rivoluzione, pur se adattata al nuovo quadro economico. La retorica si sforza di dare una notorietà a un leader perlopiù sconosciuto ai media internazionali che, anche in patria, deve ancora conquistare una popolarità degna di nota.

Lontana dagli entusiasmi del passato, la folla che era solita radunarsi oceanica quando il Lider Maximo (Fidel) parlava, oggi è in altre faccende affaccendata. Fare soldi, soprattutto.

Stato e privato competono per ritagliarsi un ruolo in un’economia di mercato subentrata prepotentemente al socialismo reale. Il primo, tassando e affittando spazi improduttivi al secondo, come già avvenuto nella riforma agraria dell’estate scorsa.

Nonostante il voltafaccia dell’attuale amministrazione Usa, succube degli umori alterni di Trump, l’embargo commerciale è finito e oggi l’isola è meta ambita delle multinazionali europee, con gli americani alle porte. Le grandi firme tedesche dell’abbigliamento sportivo, quali Adidas e Puma, e la sussidiaria statunitense Reebok, hanno negozi a Santiago, in calle José Saco, accanto a Plaza de Marte. Modelli meno costosi, comunque fuori dalla portata della maggior parte dei cubani.

A Calle Obispo all’Avana fanno bella mostra profumi Chanel n° 5 e dentifrici Colgate. Negli alberghi di Miramar, le tiendas interne, parte del monopolio statale, espongono scarpe Nike a 127 CUC, e jeans Diesel a 120. Se li godono i turisti e una élite di benestanti che sta emergendo dalla massa dei quasi 700.000 cuentapropistas (lavoratori in proprio), operanti nel settore alimentare, trasporti, costruzioni e arredamento, oltre che nel ramo import. Difatti, vestiario, elettrodomestici e tecnologia cellulare d’avanguardia hanno rivoluzionato il mercato locale dei beni voluttuari. Favoriti da una dogana compiacente che, anche se a caro prezzo, consente l’ingresso a una certa varietà di prodotti esteri.

Dal sito d-cuba.com si evince che oggi è consentito importare duty free fino a 10 kg di medicinali (tallone d’Achille della sanità cubana), materiale tecnico, un computer nuovo, tre cellulari, un forno a microonde, una macchina fotografica digitale, una videocamera, dispositivi I-Pod e Dvd, e perfino biciclette e canoe! Trenta kg di mercanzia mista sono esentasse. Per il peso eccedente, entro 125 kg, scattano le seguenti aliquote: da 51 ai 500 dollari di valore, 100% di dazio sulla fattura proforma, da 501 ai 1000 è applicato il 200%.

Per import commerciali, la prima volta i dazi si pagano in moneda nacional (Pesos cubani, MN) dal 2° sdoganamento in poi, peso convertibile (CUC). I cambi attuali: 1 euro = 1,20 CUC – 1 CUC = 25 MN. Anche la benzina si paga in CUC (1,20 al litro), per il resto la valuta è facoltativa.

Riguardo articoli proibiti come auto e moto, le entrature giuste nella burocrazia statale, oliate a dovere, consentono l’ingresso di veicoli stranieri. Difatti, davanti a hotel e club di lusso, si notano adesso modelli giapponesi che rompono la routine delle solite Lada e auto d’epoca.

Nonostante tutto, tuttavia, si sta arricchendo solo un 5% dei cubani: gli altri, autonomi e dipendenti, si arrabattano tra tasse eccessive e salari che restano uguali a prima, cioè da fame. Secondo confidenze che ho raccolto alla seguridad social (l’Inps locale), due le imposte dirette che riguardano i privati. Sul reddito di persone fisiche (ingresos personales) e di attività professionali (utilidades de personas juridicas) si paga il 10%. Poi ci sono aliquote di categoria così ripartite: cento MN mensili per barbieri ed estetiste, 300 paladares (ristoranti privati), 700 casas particulares (bed&breakfast), 660 autotrasportatori. A queste, si aggiunge il 12% se l’attività ha più di cinque dipendenti, oltre a tasse di proprietà e balzelli vari, e per finire, le ritenute per pensione e assistenza invalidità.

Alla fine, la tassazione totale per i privati si aggira intorno al 40%. Secondo Lorenzo Pérez, funzionario FMI, il fisco cubano è troppo caro per la rendita media degli autonomi, considerando che l’equivalente latino-americano oscilla intorno al 27%.

Riguardo pensioni, dal 2010 è stato introdotto un regime d’integrazione contributiva: ad esempio, un cittadino ex dipendente passato dopo 30 anni a regime TPCP (trabajador por cuenta propia), per avere diritto alla pensione dello Stato deve versare contributi per almeno 10 anni dall’inizio del nuovo corso. Può accelerare la procedura, versando contributi extra volontari e chiudere la pratica in cinque anni. E qui la nota dolente: i lavoratori dipendenti percepiscono ancora un salario medio di 750 MN (30 CUC) però molti prendono di meno.

Il minimo, 350 MN mensili. Sopra i 500 MN, il salariato deve pagare un 5% extra di contributi alla seguridad social, per cui su 550 ne verserà 96 allo Stato: 17,5% di ritenuta. Stipendi insufficienti per coprire la canasta bàsica, il paniere minimo per la sopravvivenza, assicurata a stento dalla cartilla de abastecimiento, la razione alimentare che spetta ai dipendenti. Non tutti si lamentano, anzi: categorie insospettabili, come i barbieri delle grandi città, lavorano freneticamente; la cooperativa El Figaro al Parque Céspedes di Santiago, affitta locali statali a 1000 pesos mensili (40 CUC) dopo essersi trasformata in centro estetico, con tanto di trattamento facciale. Barba, capelli e maschera di fango per il viso, 15 CUC per il turista e 3 per i locali. Niente male per Cuba.

Molte casas si sono equipaggiate con postazioni Wi-fi, comprando da ETECSA (compagnia statale che controlla Internet) telefono e router (450 + 37 CUC) e pagando 30 CUC mensili per 30 ore di connessione. Vendendo la stessa ora per 2 CUC a più clienti, se il traffico è alto, i guadagni sono notevoli, una volta ammortizzati i costi iniziali.

Allo stato attuale, nonostante le sue aperture, la società post-castrista rimane una delle più sbilanciate del continente americano a livello giustizia sociale. Le “dispari opportunità”, offerte alla cittadinanza dal connubio Stato/liberismo privato, abbinano ancora una volta il lavoratore alla figura manzoniana del vaso di coccio tra i vasi di ferro. Che lavorino per governo o per cuentapropistas, costoro prendono comunque gli stessi soldi. Tale status quo evita conflitti con le maestranze che operano all’interno di strutture statali, mentre gli imprenditori si rifanno di tasse e costi sui salari infimi che infliggono ai dipendenti.

Cuba libre sì, ma sempre rigorosamente per pochi.

© Foto dell’autore

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