Cultura

Milano va a lezione d’aikido. Sconfiggere il bullismo imparando a respirare

Dalle cronache del bullismo al clima da guerra civile che ha accompagnato le ultime elezioni, il conflitto emerge come il tema centrale della nostra società, come un tratto distintivo, che connota sempre di più anche i comportamenti minimi quotidiani. A Milano, il bullismo contro professori, immigrati, gay è diventato un fenomeno talmente diffuso che l’assessore Pierfrancesco Majorino ha deciso di lanciare fra i giovani una vera e propria campagna di sensibilizzazione, specie contro il bullismo sui gay che viene “animato” sul web da alcune frange della destra fascista.

“Lavoravo in una agenzia di collocamento e ricevevo dei disoccupati – racconta Hélène – spesso arrivava gente molto nervosa e se ricevevano un rifiuto spesso reagivano con violenza. Tutti quelli che avevano svolto quel ruolo prima di me, avevano preso dei colpi telefono in faccia, dei pugni , degli schiaffi, dei vaffanculo. Così ho deciso di concentrarmi sulla gente e mi son detta ‘beh cercherò di sentire’, di utilizzare quello che mi ha insegnato Itsuo Tsuda‘. Quando arrivavano già aggressivi lo sentivo prima che entrassero, e gli andavo incontro. Ricordo un giovane molto alto, forte e grosso che nessuno dei miei colleghi voleva accogliere perché era minaccioso e già altre volte aveva scaraventato delle sedie attraverso l’ufficio. Appena arrivava, io ‘sentivo’ già tutto questo e cercavo di ‘assorbirlo’ con delle parole o dei gesti. Gli dicevo subito: ‘Lei è il prossimo. Ci occupiamo subito di lei’. Magari gli mostravo un nuovo prospetto, gli offrivo un caffè e gli dicevo: ‘Guardi sto parlando con un’altra persona ma fra due minuti sarò da lei’. Senza questo approccio, che Tsuda mi ha insegnato e che chiamava ‘inspirare l’attacco’ mi sarei presa anche io un telefono sulla testa”.

Hélène , che abita a Parigi, è un’allieva anziana di Itsuo Tsuda un “philosophe” (così si definiva) di origine giapponese che a Parigi tra il 1969 e i 1983 insegnò una forma di aikido che oggi può essere considerata “eretica” rispetto a quello che si pratica nella stragrande maggioranza delle palestre federali. Dozzine di corsi di arti marziali nascono con la promessa “Venite donne, vi insegnamo l’autodifesa”; bene, Tsuda spiegava che se al momento del bisogno ti si blocca il plesso (cioè il respiro) non c’è tecnica di autodifesa che aiuti. Anche se avesse una pistola nella borsetta, la vittima di una molestia o di un’aggressione non sarebbe in grado di usarla perché resterebbe paralizzata.

“È insito nella natura umana che la nostra attenzione si fissi quando ci si confronta con un pericolo imminente” scrive in uno dei libri tradotti in Italia da Giovanni Frova “la fissazione ci inchioda, ci paralizza e ci priva delle nostre risorse abituali. Ciò che infastidisce è che più si cerca di liberarsi dalla fissazione, più la fissazione diventa tenace. È una situazione assurda, in cui la volontà di non aver paura ci porta ad una fissazione sulla paura”.

Tsuda diceva che il suo aikido “non è né uno sport né un arte marziale”. “Sappiamo cosa sia uno sport; è un esercizio dei muscoli volontari. Ci si sottopone alle regole del gioco. La competizione ci stimola ad ottenere la vittoria, ma non mira alla distruzione o all’annientamento dell’avversario”. Tsuda compara le competizioni regolate dello sport con i duelli senza scampo dei samurai: “Immaginiamo per un attimo la presenza di questi uomini, che vivevano nella costante coscienza della morte. È vero che i rapporti tra loro erano ben regolamentati, cortesi. Ma ciò non impediva loro di battersi fino alla morte per diverse ragioni. Non potevano indietreggiare, senza disonorarsi, di fronte ad una sfida. Non potevano dare forfait come in uno sport. Le possibilità di imboscate non erano escluse, neanche nell’oscurità più completa. Un’esitazione di una frazione di secondo poteva essere fatale. La tensione in cui erano obbligati a vivere non si potrebbe immaginare ai giorni nostri”.

Tsuda parte da questa “tensione estrema” per chiedersi come facessero ad affrontarla e a uscirne personaggi come Mihamoto Musashi, che sopravvisse oltre 60 duelli mortali. “Mi è stato raccontato il caso di un acrobata provetto a cui era stato chiesto come aveva potuto evitare incidenti gravi” scrive ancora Tsuda “Ha risposto: ‘Quando manco la presa, mi lascio cadere come una vecchia calza sporca’. Ecco il segreto. È facile da capire. Però la messa in pratica è la cosa più difficile da fare perché le persone si irrigidiscono automaticamente per la paura. La contrazione involontaria si rinforza nella misura in cui l’immaginazione si riempie di paura. La paura non rimane soltanto nella testa. Paralizza tutto il corpo. Soprattutto i polsi perdono morbidezza e le braccia si desensibilizzano”.

Tsuda trova nel respiro, nella capacità di continuare a respirare, ciò che permette di affrontare una situazione di pericolo senza restare paralizzati dalla paura. È il respiro che consente di ritrovare quella spontaneità – che avevamo da bambini e che abbiamo perso per “difenderci” dalla società e dagli altri – che ti consente di spostarti in tempo se vedi una tegola che ti cade sulla testa.

Tsuda non eludeva il “problema” del conflitto ma cercava una via d’uscita, una soluzione che non fosse nel segno della competizione, dello scontro fra “vincitori” e “vinti” senza proporre un “movimento concordato” in cui entrambi i partner collaborano gentilmente come in una lezione di tango. Anche perché l’aikido di Tsuda si confronta continuamente con l’imprevisto. Gli attacchi sono attacchi (come quelli che ogni giorno ci propone la vita quotidiana) e se il suo aikido può essere definito una “filosofia pratica” è proprio perché insegna in qualche modo a “negoziare con l’imprevisto”, insomma ad accettare di perdere il controllo sul corso degli avvenimenti; come l’acrobata di cui sopra.

Tsuda diceva che continuava a praticare aikido da 30 anni per vuotarsi la testa e per mantenere una certa mobilità delle anche. Nel suo aikido non su usa la forza, non ci sono competizioni e non ci sono “dan” (cioè gradi) perché “non è possibile assegnare il 3° dan di vuoto mentale“. Mettendo da parte ogni ossessione marziale, ogni promessa di farvi diventare come Bruce Lee, questo filosophe che iniziò a praticare a 43 anni (l’età in cui si abbandonano molti sport) ha creato una pratica che permette innanzitutto di stabile una relazione (direi un “dialogo fisico”) con persone di tutte le età – dai 7 ai 77 anni e oltre – e di tutte le provenienze  trovando un terreno comune. Quello che Tsudà chiama appunto “respirazione”.

In una società che venera i furbi e i vincenti, applaude (su Youtube) bulli e prevaricatori e celebra i palestrati dei reality, il pensiero di Tsuda può essere una boccata d’aria fresca. Di tutto ciò si parlerà giovedì 10 maggio all’Arci Bellezza di Milano con Giovanni Frova, che ha tradotto in italiano dieci libri di Tsuda per Luni Editore e dopo la proiezione di un filmato, sarà anche possibile provare sul tatami.