A 172 professori sono stati già chiesti risarcimenti per un totale di 42 milioni. La Lombardia prima per numero di casi sub iudice (60), seguita da Campania e Lazio. Quattordici le denunce per falso, decine le segnalazioni alla Corte dei Conti. Roberto Voza, direttore del dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Bari: "La legge Gelmini consente alcune attività ma non consulenze abituali e sistematiche"
È partito tutto da quelle ore sottratte all’insegnamento e alle attività dedicate agli studenti, come i corsi di formazione, la ricerca, l’aggiornamento scientifico, il tutorato. Sono così scattate le verifiche delle partite Iva dei docenti universitari che, in molti casi, hanno confermato il sospetto: i professori eludevano i propri compiti per poi dedicarsi al secondo lavoro. Violando la normativa che disciplina l’esclusività del rapporto di lavoro sottoscritto con la Pubblica amministrazione e che stabilisce che chi lavora a tempo pieno deve garantire un impegno di 350 ore all’anno in regime di tempo pieno e non meno di 250 in regime di tempo definito. Nelle ultime settimane in diverse regioni d’Italia hanno fatto notizia le segnalazioni della Corte dei Conti. Un mese fa, ad esempio, i giudici contabili hanno chiesto un risarcimento di circa 2,5 milioni per danni erariali al professor Paolo Pinceti, docente di ingegneria presso l’Università di Genova perché nel corso della sua carriera avrebbe accettato diversi incarichi in società private, senza chiedere l’autorizzazione all’ateneo.
L’INDAGINE DELLA FINANZA – Non si tratta, però, di un caso isolato. Se a 172 professori in tutta Italia sono stati già chiesti 42 milioni di euro, sono in corso verifiche su 411 docenti nell’ambito dell’inchiesta della Guardia di Finanza ‘Progetto Magistri’. I danni contestati, dunque, potrebbero anche raddoppiare al termine di questi controlli. E si andrà avanti a tappeto, in tutti gli atenei del Paese. Sono 14, poi, i casi di illeciti penalmente rilevanti che hanno fatto scattare denunce per falso in diverse procure. Coinvolto anche il rettore di una facoltà lombarda. Le cifre e gli esiti delle indagini faranno luce sulle condotte dei singoli docenti, ma di fatto la normativa che attualmente disciplina le incompatibilità qualche ambiguità può crearla. Ne è convinto Roberto Voza, direttore del dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Bari: “Fatta salva la necessità di accertare gli eventuali abusi da parte dei docenti, c’è un passaggio nella legge Gelmini – dice a ilfattoquotidiano.it – che potrebbe portare a confusioni nell’interpretazione del testo. Va fatta chiarezza su cosa si intende per doppio incarico”.
LOMBARDIA PRIMA PER INDAGATI, SEGUITA DALLA CAMPANIA – I docenti sotto inchiesta, che dovranno risarcire lo Stato per le somme illecitamente guadagnate, lavorano presso le facoltà di Ingegneria, Architettura e Chimica di 17 atenei. Per ora il record dei doppi incarichi, come riportano Corriere della Sera e Messaggero, spetta alla Lombardia (60 casi), seguita da Campania (49) e Lazio (38). Solo nelle facoltà di Bergamo, Brescia e Pavia ci sono 22 docenti segnalati per un danno erariale da 5 milioni 900mila euro. In Campania, invece, i docenti sotto inchiesta sono 31 per un danno economico di 8 milioni di euro. Ma tra i casi al vaglio ci sono anche quelli di altre regioni: 35 in Sicilia, 31 in Emilia, 30 in Toscana tanto per fare qualche esempio.
Tra gli atenei coinvolti ci sono il Politecnico di Milano e quello di Torino, Tor Vergata, RomaTre, la Sapienza, la Federico II di Napoli e l’Unipa di Palermo. Alcune segnalazioni della Corte dei conti erano già partite da tempo. Lo scorso anno, per esempio, il professor Marco Boldoni, esperto di rigenerazione delle ossa con le cellule staminali, è stato condannato a risarcire per 236.406 euro l’ospedale San Gerardo di Monza e per 4 milioni e 155mila euro l’università Bicocca. Era accusato di aver svolto attività esclusiva di odontoiatra al San Gerardo, mentre era professore ordinario a tempo pieno di Clinica odontoiatrica all’Università Bicocca e visitava nel suo studio privato. C’è poi il caso del rettore di una facoltà lombarda che avrebbe dichiarato fatti non corrispondenti al vero per coprire alcuni docenti che avevano compiuto gli illeciti. Denunce penali per «culpa in vigilando» sono state fatte anche a un’università dell’Emilia-Romagna.
LA NORMATIVA SULLE INCOMPATIBILITA’ – Una premessa: professori e ricercatori universitari possono in generale svolgere attività autonoma. Solo ai docenti che scelgono il regime di lavoro a tempo pieno è vietato portare avanti l’attività professionale esterna, né possono assumere incarichi retribuiti, salvo alcuni casi previsti dalla legge. Chi vuole svolgere un secondo lavoro privatamente può farlo optando però per il regime a tempo definito, una sorta di part-time con uno stipendio più basso rispetto al tempo pieno. I docenti finiti sotto inchiesta, invece, hanno accettato di svolgere le proprie mansioni in esclusiva, assumendo anche altri incarichi, persino in aziende statali e, in alcuni casi, con retribuzioni d’oro.
La disciplina relativa alle attività extraistituzionali e alle incompatibilità dei docenti universitari a tempo pieno, è regolata da diversi testi: l’articolo 1 della legge 662/96, l’articolo 53 del decreto legislativo 165/01 e dall’articolo 6 della legge 240/2010, ossia la legge Gelmini. L’articolo 53 del decreto legislativo 165 disciplina, nello specifico, le incompatibilità e il cumulo di impieghi e incarichi. Il testo prevede che possano essere conferiti incarichi in casi sempre disciplinati dalla legge o da altre fonti normative e che i docenti possano svolgerli se autorizzati dall’amministrazione di appartenenza. In pratica ci sono attività sempre vietate perché incompatibili, altre sempre lecite e altre ancora per le quali è necessario ottenere l’autorizzazione. La legge Gelmini ha apportato alcuni cambiamenti alla disciplina delle incompatibilità di professori e ricercatori universitari che, prima di allora, potevano contare su un regime particolare in cui erano i regolamenti di Ateneo a stabilire le regole sull’attività privata. Dal 2010 chi è a tempo pieno può svolgere solo attività non incompatibili con quella istituzionale, alcune attività non necessitano più di autorizzazione, altre invece necessitano del via libera preventivo del rettore.
“In particolare – spiega Voza a ilfattoquotidiano.it – l’articolo 6, comma 10 della legge Gelmini dispone che i professori e i ricercatori a tempo pieno, fatto salvo il rispetto dei loro obblighi istituzionali, possono svolgere liberamente (anche con retribuzione), attività di valutazione e di referaggio, lezioni e seminari di carattere occasionale, attività di collaborazione scientifica e di consulenza, attività di comunicazione e divulgazione scientifica e culturale, nonché attività pubblicistiche ed editoriali”. Tutto questo senza autorizzazione. I professori e i ricercatori a tempo pieno possono poi svolgere, questa volta previa autorizzazione del rettore “funzioni didattiche e di ricerca, compiti istituzionali e gestionali senza vincolo di subordinazione presso enti pubblici e privati senza scopo di lucro, purché non si determinino situazioni di conflitto di interesse con l’università di appartenenza “e a condizione – recita il testo – che l’attività non rappresenti detrimento delle attività didattiche, scientifiche e gestionali loro affidate dall’università di appartenenza”.
L’USO DISTORTO DELLE CONSULENZE – Secondo Voza a creare confusioni e, in alcuni casi, a spianare la strada a possibili abusi, è il termine consulenza “sulla cui interpretazione – spiega – sarebbe meglio intendersi”. Molti atenei si sono attivati per definire una linea di demarcazione, con una disciplina regolamentare più rigida di quella legislativa. “I parametri possono essere vari – continua Voza – perché si può stabilire un numero massimo di incarichi, un impegno massimo di ore, un tetto economico o combinare questi criteri, per evitare di esporre la norma di legge ad interpretazioni contrastanti. In ogni caso, non è l’attività di consulenza in sé ad essere illecita, ma il suo uso distorto, con caratteristiche di abitualità, sistematicità e continuità tali da determinare lo svolgimento di un’attività libero-professionale: è quest’ultima ad essere incompatibile con il regime del tempo pieno”.