È possibile che il tonfo di martedì 8 maggio sia stato in parte amplificato da qualche preoccupazione di carattere politico, ma da qui a tentare di utilizzare strumentalmente una seduta di Borsa per tirare acqua al proprio mulino politico ce ne passa. Piuttosto varrebbe la pena analizzare il perché, ancora una volta, a essere colpite dalle vendite sono proprio le banche. La querelle su Unicredit
In oltre due mesi di crisi politica italiana i mercati non hanno battuto ciglio. Anzi, a ben vedere l’indice di Borsa (il Ftse Mib) si è portato al di sopra dei 24mila punti toccando i massimi registrati nel lontano luglio 2015 e realizzando la migliore performance di periodo tra gli indici europei. Significativo dunque che il calo di martedì 8 dell’indice di Borsa e il lieve innalzamento dello spread rispetto al bund tedesco (salito a quota 130) vengano improvvisamente interpretati come “la reazione dei mercati” al rischio che si torni alle urne a luglio o a ottobre, tanto più che le vendite – peraltro concentrate soprattutto sui titoli del settore bancario – hanno colpito pressoché tutte le Borse europee e non la sola Piazza Affari.
Certo, è possibile che il trend negativo sia stato in parte amplificato da qualche preoccupazione di carattere politico, ma da qui a tentare di utilizzare strumentalmente una seduta di Borsa per tirare acqua al proprio mulino politico (“i mercati non vogliono nuove elezioni” o, specularmente, “non si usino i mercati per condizionare le scelte”) ce ne passa. Piuttosto varrebbe la pena analizzare il perché, ancora una volta, a essere colpite dalle vendite sono proprio le banche. Martedì mattina il Financial Times riportava con evidenza la notizia che il fondo attivista Caius Capital ha scritto alla Banca centrale europea e all’Eba (Autorità bancaria europea) denunciando come, a suo avviso, Unicredit computi a capitale degli strumenti finanziari in violazione delle norme europee e che tali strumenti, emessi nel 2008, andrebbero invece convertiti in azioni (con gravi perdite per i detentori di questi particolari bond che hanno un valore nominale di circa 3 miliardi di euro).
Unicredit ha risposto a stretto giro, osservando che non solo i regolamenti e le norme sono stati rispettati, ma che l’intera vicenda è stata esaminata e riesaminata dalle autorità competenti e che in ogni caso queste emissioni del 2008 già prevedono delle clausole di conversione in azioni ordinarie nel caso in cui ve ne fosse bisogno. Ma la questione non è chiusa e la palla passa ora alle autorità europee che dovranno rispondere a Caius Capital anche per fugare il dubbio insinuato dall’articolo del Financial Times che – Unicredit a parte – altre grandi banche europee non abbiano calcolato correttamente i capitali propri da utilizzare in prima istanza per assorbire le perdite in caso di dissesto (Cet1 ratio).
Non è un caso, dunque, se a finire sotto pressione è stato l’intero settore bancario europeo. In Italia è andata peggio e a subire le perdite più rilevanti sono stati ancora una volta i titoli delle ex Popolari come Banco Bpm, Ubi Banca, Bper (tra i ribassi peggiori della seduta) e la stessa Unicredit che ha ceduto oltre il 3%, chiaro segno che il nostro sistema bancario viene ancora percepito come strutturalmente fragile, nonostante il gran parlare di smaltimento delle sofferenze che di questa fragilità rappresentano il nervo più scoperto, ma non certo l’unico. La fragilità sistemica in un momento di impasse politica e, soprattutto, di desiderio di portare a casa i guadagni realizzati negli ultimi mesi ha finito con il penalizzare anche chi ha dato ottima prova di sé, come Intesa Sanpaolo che ha chiuso il primo trimestre con degli ottimi risultati (l’utile è cresciuto addirittura del 39% a 1,2 miliardi).
Ma di notte – si sa – tutti i gatti sembrano neri e le prese di beneficio sembrano più che giustificate alla luce della lunga corsa dell’indice e degli stessi titoli finanziari (da inizio anno Intesa Sanpaolo ha guadagnato quasi il 14% e Unicredit il 10,5% per citare i due maggiori istituti bancari italiani). Se per ora la crisi politica italiana sembra influire molto poco sull’andamento del mercato, è però sicuro che in caso di improvviso avvitamento sarebbero ancora una volta le banche a finire nell’occhio del ciclone, anche perché – nonostante la drammatica crisi culminata con la nazionalizzazione di Mps e la liquidazione delle due ex popolari venete – si è deciso ancora una volta di non intervenire nella convinzione (errata) che le cose finiranno prima o poi con il mettersi a posto da sole grazie alla ripresa economica. Quella ripresa economica il cui ritmo in Europa sta già rallentando e su cui pesano i timori di un’escalation della tensione con l’Iran, per non parlare della questione dazi, che rischia di innescare una vera e propria guerra commerciale con gli Stati Uniti con conseguenze pesanti sull’economia europea.