Vista dall’esterno, l’iniziativa giudiziaria che ha portato a richiedere indietro lo stipendio a centinaia di professori non sembra altro che l’ennesima occasione per invocare severe punizioni su tutto il sistema universitario. Se però vogliamo uscire dalle facili generalizzazioni, analizzare questa vicenda serve a capire quanto in realtà l’Università non sia un’entità omogenea, anzi includa realtà e problematiche completamente differenti e richieda quindi provvedimenti mirati per evitare di gettar via il bambino insieme all’acqua sporca.

Innanzitutto, un primo dato per valutare la dimensione del fenomeno: nel Lazio, su 851 docenti afferenti a Ingegneria e Architettura, 24 non sono risultati in regola. In Campania, su 868 docenti, gli irregolari sono stati 31: la percentuale di  docenti colti in fallo è quindi del 3,2%, a fronte di un 96,8% che invece si è comportato correttamente. A mio parere, è un po’ poco per giustificare l’invocazione a radere al suolo interi atenei, anche se non è assolutamente trascurabile.

Ma perché l’indagine è partita proprio da Ingegneria e Architettura? Non è un caso: esistono notevoli differenze tra le facoltà che sono legate al mondo delle libere professioni e quelle che invece avviano principalmente al lavoro dipendente. L’insistente richiesta di legare il più possibile l’insegnamento universitario al mondo del lavoro ha fatto sì che in alcune aree (ad esempio Ingegneria e Architettura, ma anche Economia, Giurisprudenza e Medicina) si sia creata una commistione tra ordini professionali e dipartimenti universitari, in quanto essere un bravo professionista viene considerato come un titolo di merito per l’accesso al ruolo e per le progressioni di carriera. Allo stesso modo, per un professionista, essere anche professore universitario è una specie di “bollino di qualità” che dà lustro al cliente, e quindi consente di aumentare le parcelle. Questo intreccio di interessi fa sì che nelle aree suddette sia più facile assistere a comportamenti irregolari rispetto a quelle più strettamente scientifiche ed umanistiche, dove certe tentazioni non ci sono o sono molto ridotte.

Altri si chiedono: perché questi fatti non sono emersi prima? Tra i casi venuti alla luce, infatti, ci sono anche situazioni nelle quali i professori saltavano molte delle lezioni che erano tenuti ad impartire, facendosi sostituire da colleghi più giovani o da precari: come mai gli studenti non hanno denunciato il fatto? Ho provato a chiedere a degli studenti delle facoltà incriminate, e alcuni di loro mi hanno risposto che non hanno protestato anche perché i sostituti del prof erano quasi sempre didatticamente molto più bravi del titolare! E’ un bizzarro caso in cui l’incapacità (o la cattiva volontà) costituisce un vantaggio invece che uno svantaggio.

Infine: in molti si sono chiesti come mai i professori non hanno semplicemente optato per il regime a tempo definito, in modo da poter svolgere la loro attività professionale in modo regolare. E’ difficile dare una risposta: di sicuro, la scelta del regime a tempo definito comporta uno stipendio inferiore (circa i due terzi di quello a tempo pieno), però si tratta di decurtazioni relativamente basse rispetto agli elevati standard dei guadagni dei professionisti. Forse i prof colpevoli hanno sottovalutato il rischio di controlli, o forse hanno fatto affidamento sull’ambiguità della famigerata legge Gelmini che disciplina le autorizzazioni. A queste ipotesi ne aggiungo una: i professori a tempo definito non possono assumere prestigiose cariche accademiche come rettore, preside, membro elettivo del consiglio di amministrazione, direttore di dipartimento… ovvero ruoli che conferiscono un notevole potere a chi li ricopre.

In conclusione: ben venga l’inchiesta, che certamente sarà utile a ripristinare la regolarità e la trasparenza negli atenei. La speranza è che non venga usata come pretesto per ennesimi giri di vite generalizzati contro gli atenei, con provvedimenti che abitualmente finiscono per penalizzare la vasta maggioranza di professori onesti (e conseguentemente i loro studenti) con ulteriori impedimenti e carichi burocratici, lasciando spesso relativamente indisturbati i disonesti.

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