Amour fou nella guerra fredda. Accade oggi a Cannes e già si vocifera la magica parola: Palma d’oro. Magnifico ed ipnotico, Cold War (Zimna Wojna) è un film caldissimo seppur nella sottrazione narrativa e nel bianco&nero di un talento come quello del polacco Pawel Pawlikowksi, già premio Oscar per l’indimenticabile Ida. Come si diceva, è una delle opere in corsa per la Palma d’oro (ad oggi) più accreditata a conquistarla, anche se chiaramente la considerazione è prematura.
Liberamente ispirato alla storia dei propri genitori, “ma non è il loro ritratto, semplicemente ho descritto i meccanismi del loro stare insieme e mantenuto il loro nome” spiega il cineasta 51enne, Cold War racconta il tormentato rapporto d’amore fra Zula e Wiktor nell’arco temporale di 15 anni, fra il loro primo incontro del 1949 e il 1964. Entrambi sono artisti del folklore locale, fortemente incoraggiato nella sovietica Polonia di quel tempo. Lei canta e balla, lui è il musicista e filologo della tradizione nazionale. Si amano alla follia ma ostacoli esterni ed interni a loro stessi impediscono di vivere serenamente questo sentimento.
Viaggiano nello spazio e nelle ellissi temporali siglate dall’autore, si spostano con moti incrociati dall’uno all’altro “lato” dell’Europa allora divisa, mentre la musica passa dalla folk alla jazzy parigina: tutto cambia tranne il loro contrastato e folle amore, specie per il temperamento instabile di Zula, interpretata dalla magnifica Joanna Zulig. Indubbiamente costruito sull’impianto del cinema classico (“la classicità è il mio punto di riferimento”) Cold War appare come un’elegia sospesa nella storia benché “la” Storia sia così immanente se non ingombrante nei destini dei due amanti. Il film uscirà prossimamente in Italia per Lucky Red che già aveva distribuito Ida. Conquistando quest’opera in concorso, il Festival di Cannes giunto al suo quarto giorno di programmazione sta iniziando a mostrare il suo “aspetto” in termini di una selezione poco prevedibile e di certo coraggiosa, a prescindere dal giudizio critico in senso stretto.
Se piacevolmente sorprendente è stata la visione dell’unico esordio in concorso rappresentato da Yomeddine dell’egiziano A.B. Shawky, tenero road movie di un lebbroso e un orfano alla ricerca delle loro identità perdute, di impressionante effetto è stata l’opera del russo Kiribati Serebrennikov, Leto, tuttora agli arresti domiciliari per “presunto” dissenso al regime putiniano e dunque forzatamente assente dalla Croisette. Il suo film è un musical dolente sui rocker della sovietica Leningrado degli anni ‘80, una manciata di giovani residuali che sognano emulando Lou Reed e David Bowie ma sono letteralmente costretti in dimensioni ben poco “rock”. Un film in bianco e nero con interventi colorati e “pop” dal chiaro stile videoclip, a rappresentare i sogni irrealizzabili di questi ragazzi, divenuti adulti tormentati e presto scomparsi: i protagonisti infatti rispecchiano musicisti della scena rock sovietica realmente esistiti.
Deludente è invece il nuovo testo del francese Christophe Honoré, Sorry Angel (Plaire, aimer et courir vite)sull’esistenza solitaria ed inquieta di uno scrittore omosessuale affetto da HIV nella Parigi dei primi anni ‘90. Lontano dalla potenza espressiva di 120 BPM del collega Campillo, presente a Cannes lo scorso anno, ma ad esso limitrofo per ovvi motivi, il film stenta a trovare un’identità convincente, indugiando e dilungandosi senza convinzione espressiva sulle vicissitudini di un uomo e dei suoi amanti. Un’altra storia d’amore tormentata ed anch’essa – a modo suo – legata a quel sogno di totalità realizzabile solo in un’altra vita.