di Paolo Bagnoli
Il Paese è immerso in una lacerante quotidianità. L’Italia è incistata nell’incertezza; un qualcosa che prescinde dalla stessa soluzione di governo, qualunque essa possa essere. Lo stesso governo emanazione di Sergio Mattarella, invece di rappresentare un punto saldo di tenuta istituzionale, in questo clima, avrebbe rischiato di assomigliare all’ancoraggio di una nave che soffre la violenza del mare per quanto ancorata al molo. Ma il mare nel quale naviga la Repubblica da un quarto di secolo è quello delle macerie lasciate da un sistema politico disintegratosi, non solo nella sua dimensione partitica, ma per la mancata risposta della politica alla devastante ondata giustizialista che lo investì.
Nel momento in cui si è accettato – e qui la classe politica che era rimasta intatta da Tangentopoli ha grosse responsabilità essendosi nascosta e cercato di lisciare il pelo del gatto invece di tenerlo a freno – che lo Stato di diritto si trasformasse in un’entità dominata dalla virtuosità esterna espressa dalla giurisdizione, allora, l’etica della Repubblica quale sistema fondato sulle leggi scritte e non scritte della politica democratica si è incrinata. Smarrito il significato del “mandato politico” il canone democratico si è basato solo sul principio della delegittimazione di cui il tragico nostrano sistema bipolare ha rappresentato la sublimazione: chi perdeva era delegittimato da ogni punto di vista; andare al governo significava la legittimazione della verità e della conquista dello Stato.
E’ stato drammatico, dopo Tangentopoli, non aver compreso che la democrazia avrebbe ripreso campo nel senso più pieno solo rilegittimando il canone della politica; l’occasione fu persa, ma dopo il referendum costituzionale del 2016, la vittoria dei No, riponeva con forza sul tavolo il problema; un esagerato e immotivato riguardo verso il renzismo ha impedito che si potesse recuperare un senso pieno alla politica democratica. Se ciò fosse avvenuto il penoso spettacolo di questi due mesi ce lo saremmo risparmiato.
Lo scenario cui assistiamo è, a dir poco, deprimente. Scomparsi ogni ideale e ogni ideologia ha preso il sopravvento la paura di riorganizzare seriamente la lotta politica e prodotto leggi elettorali sbagliate, l’emergere di ceti politici senza nerbo vero, un battere continuo sul mito negativo della casta, il dilagare del populismo e della demagogia. E’ trascorso mezzo secolo nel quale tutto ciò che si è verificato lascia le orme di una serie concatenata di fallimenti: il Partito democratico, il bipolarismo, l’ulivismo, l’Unione, il polo delle libertà, il governo grigio e doloroso dei professori, l’illusione di un una nuova specie di pentapartito con Enrico Letta, un modo più che sbagliato di porsi di fronte al problema dei migranti e, infine, l’affermazione dei 5 Stelle che sublima il tutto nel nulla pericoloso come ci dicono le cose che abbiamo sotto gli occhi…
La ripresa, però, non ci sarà se il Paese non verrà sollecitato a una ampia, diffusa e seria discussione pubblica. Giornali, televisioni, social si rosolano negli echi della quotidianità aumentando alle macerie politiche quelle dell’informazione e della riflessione; tutto pare affogato nelle acque limacciose e grigie della mera comunicazione, la quale, alla fine produce l’effetto contrario a quello desiderato poiché, sempre che uno ci ragioni, batti oggi e batti domani la costruzione artificiosa di fatti e persone finisce per franare.
Ci rendiamo conto che la nostra lettura delle cose possa apparire troppo pessimista. Non ci stupiamo considerato a cosa ha portato tanto ottimismo e attendismo e come la classica via d’uscita della nostra mentalità – il dire tipicamente italico “mah! Staremo a vedere” – di cose belle da vedere non ha dato niente. Se l’indignazione morale non coglie i lati critici e, quindi, esprime solo approssimazioni, allora essa si trasforma in rabbia populistico-demagogica; se, invece, il pessimismo serve a mettere in risalto quanto un esercizio critico della situazione dovrebbe imporre a chi ha cuore l’avvenire della Repubblica, allora non è un fatto da deprecare, non è mancanza di fiducia né dismissione morale; certo che ha il sapore amaro di una verità di fronte alla quale troppo colpevolmente si è finito per chiudere gli occhi.
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