Il Paese sudamericano vive da mesi nel limbo finanziario. I pagamenti delle cedole sono sospesi da novembre, ma una parte dei denari sono stati versati a chi avrebbe dovuto pagare i creditori. L'iter si è interrotto nel momento in cui le autorità statunitensi hanno chiesto delle verifiche sulla provenienza dei fondi. Controlli che però, in teoria, non sarebbero di competenza di quelli che sono semplici intermediari
Per il debito venezuelano sembra avvicinarsi l’ora della verità. Travolto da una drammatica crisi economica il Paese sudamericano vive da mesi nel limbo finanziario di un “quasi default”. I pagamenti delle cedole sono sospesi da novembre, l’agenzia di rating Standard & Poor’s ha dichiarato un default tecnico che però non configura ancora un fallimento generalizzato. In assenza di qualsiasi comunicazione ufficiale, non si capisce infatti se i pagamenti potranno riprendere oppure no. Anche gli investitori appaiono incerti, il valore dei titoli venezuelani è crollato lo scorso novembre in coincidenza con i primi mancati versamenti delle cedole, per poi stabilizzarsi in attesa di ulteriori sviluppi. A complicare un quadro già di per se molto confuso c’è il giallo dei fondi che sarebbero stati versati da Caracas presso i due depositari centrali Euroclear e Clearstream, ma che non sono mai stati distribuiti ai possessori di bond con un’ unica eccezione: un assegno da 90 milioni staccato a favore di Goldman Sachs.
I titoli venezuelani in circolazione valgono circa 150 miliardi di dollari, mentre gli interessi non pagati da fine 2017 ad oggi ammontano a 2,5 miliardi. Nell’arco di tutto il 2018 il Venezuela dovrebbe pagare cedole per 10 miliardi mentre le riserve del Paese si attesterebbero intorno ai 9 miliardi (per lo più sotto forma di oro fisico). A pagare lo scotto di questa situazione sono anche molti piccoli risparmiatori che da fine 2017 non hanno più percepito alcuna cedola sui loro bond. Eppure almeno una parte dei fondi sarebbe già pronta e depositata presso Euroclear e Clearstrem. Come da prassi, infatti, i governi non effettuano direttamente i pagamenti ai singoli possessori di titoli, ma versano i soldi presso queste società che poi provvedono a smistarli alle singole banche e quindi agli obbligazionisti. Questo iter si è però interrotto nel momento in cui le autorità statunitensi hanno chiesto delle verifiche sulla provenienza dei fondi versati da Caracas. Controlli che però, in teoria, non sarebbero di competenza di quelli che sono semplici intermediari. Quello statunitense sembra quindi soprattutto un tentativo di aggravare ulteriormente la condizione finanziaria del Paese sudamericano. Interpellati sulla vicenda né Euroclear né Clearstream hanno voluto fornire ulteriori chiarimenti. Secondo alcuni operatori anche lo stesso Venezuela starebbe in qualche modo approfittando dello stallo dato che, adducendo la giustificazione del blocco, avrebbe ridotto i versamenti destinati alle cedole.
Lo stop ai pagamenti non sembra però valere per tutti. Goldman Sachs avrebbe infatti ricevuto 90 milioni di dollari come interessi sui bond della compagnia petrolifera di Stato venezuelana PDVSA in suo possesso. A darne notizia, citando fondi vicine al dossier, è stato anche il Wall Street Journal. Il quotidiano finanziario statunitense ha sottolineato inoltre come il pagamento a favore della banca d’affari statunitense potrebbe essere l’ultimo che Caracas è stata in grado di effettuare. I fondi erano stati versati presso i due depositari lo scorso novembre, ma sarebbero stati effettivamente trasferiti alla banca solo da poco. Il ruolo di Goldman Sachs nella crisi venezuelana è stato oggetto di forti polemiche, provenienti da più parti. La banca Usa aveva infatti comprato a forte sconto titoli per un valore nominale di quasi 3 miliardi di dollari direttamente dalla Banca centrale venezuelana, nell’ambito di un’operazione concordata con il governo di Caracas. L’iniezione di fondi aveva dato ossigeno al presidente Nicolas Maduro in un momento critico, consentendogli di evitare o almeno rimandare il crac del Paese. Per questa ragione su Goldman Sachs sono piovute le critiche dell’amministrazione Usa che aveva appena varato sanzioni per colpire il governo di Caracas.
Per contro l’intento speculativo dell’operazione, comprare i titoli a forte sconto nella scommessa di farseli poi ripagare a prezzo pieno o quasi, ha accentuato la riprovazione per un’operazione orchestrata mentre la popolazione del Paese vive un fortissimo disagio e fronteggia la carenza di beni di prima necessità. Va poi detto che, nonostante il recente pagamento degli interessi il bilancio complessivo dell’operazione è tutt’altro che positivo per Goldman Sachs. Visto il degenerare della crisi, la banca rischia di ritrovarsi con un pugno di mosche in mano. Goldman Sachs non è l’unico grosso nome che si sta bruciando le mani maneggiando i titoli venezuelani. Tra i grandi possessori di bond di Caracas e della sua compagnia petrolifera ci sono anche BlackRock, T.Rowe Price, Ashmore Group e Northern Trust. Dodici dei quindici maggiori creditori del Paese sudamericano hanno creato un comitato per difendere i loro interessi affidando mandato a Millstein & Co, advisor finanziario specializzato in ristrutturazione dei debiti. Una mossa che segnala come ormai la battaglia si stia spostando nelle aule dei tribunali.
Nella confusione generalizzata che avvolge la vicenda si rincorrono voci tra gli addetti ai lavori dell’imminente avvio di parecchie cause per ottenere i pagamenti dovuti sui bond. Come nel caso argentino buona parte di questi titoli è stata emessa sotto la giurisdizione statunitense per aumentarne l’appetibilità agli occhi degli investitori. Molte di queste partite giuridiche si svolgeranno quindi proprio in casa del nemico. “Attenzione però – spiega Pietro Adami, avvocato specializzato in contenziosi finanziari internazionali – perché dopo i default del Perù e dell’Argentina, gli Stati emittenti sovrani sono diventati molto accorti nel costruire prospetti dei titoli difficili da aggredire giuridicamente. Ogni titolo potrebbe prevedere condizioni particolari per stabilire quando scatta effettivamente un default. Inoltre, per i bond emessi sotto la legislazione locale la sfida sembra quasi impossibile da vincere. Significa infatti ottenere ragione da una corte venezuelana che giudica sui titoli emessi dal governo del Paese” .
Sembra illusorio pensare che la recente ripresa dei valori del petrolio, tornato sui massimi dal 2014, possa in qualche modo risollevare la situazione. Negli ultimi anni la capacità produttiva del Venezuela si è ridotta del 30% a causa del caos sociale ed economico e dei mancati investimenti per la manutenzione e il rinnovo delle infrastrutture petrolifere. Il colosso Usa Halliburton che vende consulenza e servizi per l’attività petrolifera ha svalutato per quasi 650 milioni di dollari i suoi crediti verso PDVSA. Allo stesso modo la texana Schlumberger ha messo a bilancio perdite legate al Venezuela per quasi 1 miliardo di dollari. Non bisogna inoltre dimenticare che 500mila degli 1,5 milioni di barili prodotti oggi ogni giorno dal Venezuela sono vincolati per ripagare i finanziamenti concessi al Paese da Cina e Russia. Sinora Pechino, che ha erogato un prestito da 19 miliardi di dollari, era stata piuttosto morbida sui pagamenti anche per non mettere Maduro in ulteriore difficoltà. Pochi giorni fa il “periodo di grazia” concesso sui pagamenti è però scaduto. Una stretta cinese farebbe precipitare la crisi finanziaria del paese verso un epilogo che sembra comunque avvicinarsi sempre più rapidamente.
Caracas ricava dalla vendita del petrolio il 90% delle sue entrate e il greggio copre il 96% di tutto l’export del Paese. Quando le quotazioni sono alte il Venezuela è relativamente ricco e può spendere. Quando scendono finisce rapidamente in apnea ed è costretto a chiudere i cordoni della borsa. Il Paese galleggia sulle riserve petrolifere più grandi del mondo, stimate in circa 300 miliardi di barili, ma, come spesso accade, la ricchezza di materie prime porta con sé una maledizione. Un Paese tende a diventare quello che produce, se si focalizza su prodotti di base e materie prime rimane intrappolato in queste produzioni a basso valore aggiunto e viene relegato ai margini dell’economia internazionale. Un rischio che la globalizzazione non fa che acuire. L’errore dei governi venezuelani è stato quello di non aver mai agito per allentare questo legame pericoloso con il petrolio, approfittando dei periodi di abbondanza per migliorare la struttura produttiva del Paese. La scelta è stata piuttosto quella di finanziare politiche di spesa che assicurassero un immediato ritorno politico trascurando di porre le basi per un vero rafforzamento del Paese. L’attuale presidente Nicolas Maduro ha avuto per di più la sfortuna di salire al potere quando le quotazioni erano in calo. Il prosciugarsi dei proventi del petrolio ha rapidamente ridotto i fondi per proseguire le politiche avviate dal predecessore Hugo Chavez.