Alitalia e Air France rappresentano le vestigia di un’epoca non rimpianta in cui le compagnie di bandiera erano i monopolisti dei cieli (grazie anche al ferreo cartello mondiale della Iata), che imponevano prezzi assurdamente gonfiati. Il trasporto aereo era riservato a pochi eletti e i sovrapprofitti alimentavano una pletora di greppie scandalose e di sprechi plateali. In Italia, per di più, lo sfacelo veniva esacerbato da ricatti (sotto forma di scioperi a oltranza) per strappare condizioni di lavoro simil-vacanza e stipendi oscenamente generosi.
Quarant’anni fa un presidente americano di sinistra, Jimmy Carter, in uno dei suoi rari successi anticipò la stagione delle deregolamentazioni (che avrebbero conosciuto il tripudio con l’avvento di Ronald Reagan) e con l’Airline Deregulation Act mandò in frantumi quel monopolio, prima negli Usa e successivamente (una picconata alla volta) nel resto del mondo.
Pan Am, Twa, Swiss Air, Eastern Airlines, Sabena, furono alcuni degli scalpi più illustri appesi alla cintola della sana concorrenza che ha permesso a centinaia di milioni di persone normali di spostarsi con un mezzo una volta riservato alle élite. Purtroppo 40 anni non sono bastati per purgare il trasporto aereo dalle compagnie aeree statali che continuano ad aggirarsi nelle lande come gli zombie in Walking Dead. Ma al contrario degli zombie di celluloide – definitivamente abbattuti da una pallottola dum dum – i carrozzoni statali dimostrano una resilienza stile Terminator.
In questa specialità Alitalia è l’indiscussa regina, essendo riuscita a fallire in tutte le condizioni: con la proprietà pubblica, con gli azionisti privati, durante i periodi di espansione, durante le recessioni. Se messa alla prova, fallirebbe pure con il padreterno nel ruolo di amministratore delegato e azionista di maggioranza, tanto è micidiale il potere distruttivo del famelico generone romano in simbiosi con il marciume politico affamato di consenso acquisito con i soldi pubblici.
Air France per quanto ammaccata è in una situazione infinitamente più florida ma a volte mostra una pulsione a colmare il divario nella corsa al peggio. Dieci anni fa, durante l’agonia del governo Prodi, aspirava ad accollarsi (con un’offerta da capogiro) il disastro Alitalia. Per sua fortuna – e sfortuna dei contribuenti italiani – fu stoppata dall’intervento di Silvio Berlusconi il quale per continuare la devastazione raccolse una ciurma di sedicenti capitani protosovranisti e banche “di sistema” da cui mungere i soldi dei depositanti, visto che quelli dei contribuenti non bastavano per colmare le voragini nei bilanci.
Ora Air France – congiuntasi con Klm nella classica ricerca di sinergie tra claudicanti e ipovedenti – è finita sugli scogli perché in sostanza paga troppo i dipendenti rispetto ai concorrenti. Senza dover scomodare prestigiosi Cv con annessi tre anni di militare a McKinsey, l’aerolinea francese è in mano a burocrati targati Grandes écoles, dediti a gestire un’impresa come fosse il ministero degli Esteri. L’avvento di Emmanuel Macron sembra aver cambiato musica e spartito. Come nel caso Alitalia, un referendum tra il personale Air France ha rigettato un accordo per il salvataggio proposto dall’amministratore delegato Jean-Marc Janaillac, che si è prontamente dimesso. Le analogie con il Belpaese però si esauriscono qui.
In Italia dopo il referendum della vergogna, il governo ha piegato la testa e ha di nuovo ceduto al ricatto sindacale sborsando soldi pubblici sotto forma di prestito ponte (una farsa su cui la Commissione europea ha aperto un fascicolo per aiuti di Stato). In Francia il ministro dell’Economia Bruno Le Maire ha avvertito che la ricapitalizzazione a spese di Pantalòn è destinata al libro dei sogni degli scioperanti. Idem la posizione del suo collega olandese Wopke Hoekstra. Per Macron lo scontro potrebbe segnare lo spartiacque tra l’ancièn régime dirigista-corporativo e un’economia di mercato dove i carrozzoni pubblici finiscono in rottamazione, non garantiti con prestiti ponte mai ripagati.
Alitalia, invece, non solo continua a bruciare preziose risorse pubbliche (che in un Paese in bancarotta non andrebbero sprecate) ma gli è addirittura concesso di nascondere quanti soldi ha buttato nel vespasiano. I commissari (del popolo bue) che cercano futilmente di tamponare lo sconquasso della compagnia di bandiera (ammainata) non hanno prodotto un bilancio dal 2015 (nonostante stime che indicano perdite da capogiro). Il ministro Carlo Calenda, con gli scatoloni pronti, si è limitato dopo mesi di proteste ad emanare un “atto di indirizzo” che sollecita i commissari a divulgare le cifre.
Il motivo di tanta segretezza sarebbe piaciuto a Pulcinella: siccome il governo è alla ricerca dell’ennesimo gonzo che si cimenti con la patata bollente (Lufthansa è il nome più ricorrente, oltre ad Air France) rivelare le cifre del disastro indurrebbe alla fuga i pretendenti. Come se qualcuno sano di mente potesse comprare Alitalia a scatola chiusa, senza una due diligence da scorticare vivo tutto il management.
Ovviamente nessuna offerta di acquisto arriverà prima che un governo si insedi e dichiari le proprie intenzioni. Ma non bisogna mai sottovalutare la pulsione dei nuovi a comportarsi peggio dei vecchi, quando sono in gioco cospicui pacchetti di voti di scambio. Noi che non abbiamo visto astronavi in fiamme al largo di Orione ma più modestamente autobus dell’Atac in fiamme al Tritone, ci stiamo preparando agli airbus in fiamme nei cieli di Fiumicino e sulle piste padane di Malpensa.