Montaggio psichedelico di sequenze d’archivio e immagini diversamente raccolte a cui sono sovrapposte piste sonore fuori sync, il regista 87enne racconta il mondo arabo: "Penso dovrebbero essere lasciati in pace con i loro affari finche non fanno del male. Ma naturalmente il mio è un film e dunque non è concepito per dettare una linea, semplicemente per mostrare una situazione"
Cantore della post-modernità – ed è emblematica la meta-tecnologia utilizzata, sorta di mise en abyme 2.0 – Godard non smente mai se stesso e il tal senso non smette di superare il pensiero corrente. Sorprendersi o non sorprendersi della sua scelta di essere amico e disponibile con un festival che lui ha sempre detestato, ma che improvvisamente ha “godardianamente” agganciato con uno strumento che l’ha reso simulacro, sorta di ologramma eterno. “Ho accettato l’invito di Fremaux a portare il film in concorso perché può aiutare la promozione internazionale, vorrei anche i giovani lo vedessero e non solo i sopravvissuti della mia generazione!”, scherza l’autore di capolavori assoluti della storia del cinema, anzi per taluni uno dei fondatori stessi dell’arte cinematografica, di certo di una delle più potenti rivoluzioni di questo linguaggio.
Jean-Luc proclama il “coraggio di vivere la vita” e anche qui sembra immedesimarsi col titolo di un’altra delle sue opere straordinarie, Vivre sa vie del 1960. “Io sono a bordo del treno della mia vita, anzi lo guido io stesso”. Il cinema secondo Godard è quindi vivo e vitalissimo “nel momento in cui si occupa delle domande periferiche, quelle nascoste appunto. E il montaggio per me rappresenta l’azione cinematografica primaria, mentre le riprese sono, in realtà, sono la vera post-produzione”. Le dichiarazioni non smentiscono forma/contenuti di questa nuova fatica, solo “apparentemente” un film sul mondo arabo ma di certo concentrato su di esso.
“Volevo mostrare come gli arabi agiscono oggi, io penso dovrebbero essere lasciati in pace con i loro affari finche non fanno del male. Ma naturalmente il mio è un film e dunque non è concepito per dettare una linea, semplicemente per mostrare una situazione”. Le livre d’image non differisce dalle ultimissime opere di Godard: attraverso il montaggio psichedelico di sequenze d’archivio e immagini diversamente raccolte a cui sono sovrapposte piste sonore fuori sync (anche plurime e dissonanti fra loro), Godard ci conduce con la sua voce over alle domande per lui “corrette” che – come sempre – riguardano il significato politico del segno-immagine, la sua funzione di definire il presente fino alla sua capacità di prevedere il futuro. Rivoluzionario by definition, Jean-Luc Godard ha sperimentato per questo film un sistema sonoro innovativo, tale – come si anticipava – da permettere la simultaneità di diverse piste provenienti stereofonicamente da differenti uscite audio. “Non ci sono molti cinema al momento che possono proiettare il mio film per come è concepito, forse fra 10 anni… chissà”. Ritorno al futuro, e per Jean-Luc è naturale standing ovation.
Diversamente maestro, ieri sera è stato anche il momento del cinese Jia Zhang-ke, anch’egli adorato dalla cinefilia, artista e cantore della Cina in costante mutazione attraverso panorami industriali e personaggi che restano nella memoria come ritratti intimi eppure universali. Il suo lungo e intenso Ash is Purest White racconta la parabola di una donna (interpretata dalla sua musa e moglie Zhao Tao, straordinaria) che vive tre fasi della propria esistenza nell’arco di circa un ventennio. Tre film in uno ricchi di emozioni e grande cinema, come sempre quando la firma è quella di Zhang-ke.