Diceva Agatha Christie: “Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova”. La prova è la consapevole e scarsa attenzione al processo di indebolimento del sistema bancario per consegnarlo (laddove già non fatto) al capitale straniero. Il terzo indizio è una scadenza molto importante e vicina. Entro il 2018 le banche (per dimostrare di essere in buona salute) dovranno superare un esame richiesto dalla Banca centrale europea. Un esame difficile e che si basa sull’indice Nsfr (Net stable funding ratio), un “indicatore” creato per dare più solidità al sistema delle banche e rafforzarne la capacità di reagire a eventi traumatici, su un orizzonte di tempo limitato (un anno).
Il Net stable funding ratio è il rapporto tra l’ammontare disponibile di provvista stabile di una banca e la somma obbligatoria di provvista stabile. Il requisito imposto da Basilea è che questo rapporto sia maggiore del 100% e cioè che il numeratore sia maggiore del denominatore. Per provvista stabile si intendono, tra l’altro, “i depositi di risparmio della clientela che si ritiene costituiscano fonti affidabili di fondi, su un orizzonte temporale di un anno, in condizioni di stress prolungato”. Un tesoretto che non va via facilmente (perché vincolato per una durata superiore ai 12 mesi) e sul quale quindi si può certamente contare entro l’anno. L’ammontare obbligatorio, invece, è la somma minima di soldi che la banca deve (per legge e cautelativamente) “mettere da parte” e tenere a disposizione dei risparmiatori, nel caso in cui – in presenza di eventi traumatici – rivogliano indietro e prima della scadenza i loro risparmi.
Come sono messe le banche italiane rispetto a questo nuovo obbligo richiesto dalla Bce?
Negli ultimi anni (post fallimento Lehman Brothers), i banchieri hanno adottato una miope politica di funding che puntava, nel breve, a racimolare un po’ di utili per i disastrati bilanci traendo profitto da una raccolta a breve termine (risparmi dei clienti che restano nelle casse solo o meno di 18 mesi) che solitamente viene pagata a un tasso più contenuto rispetto alla raccolta a medio e lungo termine. E la raccolta a breve termine non costituisce “provvista stabile”.
Ma poi vai a vedere l’Nsfr del 2012 di Mps e trovi un valore pari a 101%. E ti chiedi: ma Monte dei Paschi di Siena non è andata in default proprio per la sua scarsa resistenza strutturale? Bilancio falso o altro? Il motivo lo capisci quando si esamina attentamente il documento del 2014 del Comitato di Basilea che ha introdotto il Nsfr: la normativa è solo una ennesima presa in giro perché è già stata edulcorata in partenza. Basta concentrarsi su due percentuali indicate nel documento: 90% e 95%. Quale sarebbe quindi l’escamotage pensato da Bce e da Bankitalia per vanificare – dietro l’apparente severità dei propositi – il carattere vincolante dell’indice Nsfr?
Per far sì che tutte le banche sembrino “a posto” e possano (apparentemente) superare l’esame, hanno fatto in modo che dentro la definizione di “provvista stabile disponibile” (il numeratore) le banche possano calcolare anche il 90% dei depositi liberi a scadenze inferiori a un anno.
In sostanza quella che (in teoria) dovrebbe essere una provvista stabile, in realtà – per un cavillo “esecutivo” della stessa normativa – si rivela una provvista non tanto stabile, perché è stato permesso di conteggiare dentro quella provvista anche fondi che così duraturi non sono, visto che possono sparire dalle casse della banca prima di un anno. E tutto ciò al fine di fare sembrare il sistema bancario migliore di quanto sia.
Ma perché tutto questo? Alla prossima.