Immagine tratta da Grimbergen
Se ci fermassimo alle apparenze, al soffice cappello di schiuma e parole che sovrasta una bella storia di birra, la notizia sarebbe romanticamente suggestiva: una vecchia abbazia nella regione del Brabante, dalle parti di Bruxelles, costruita nel lontano 1128 quando i monaci erano maestri nell’arte di fermentare il malto; una vicenda burrascosa di distruzioni e ricostruzioni per una realtà, Grimbergen, che a forza di risorgere dalle sue stesse ceneri si fonde con l’immagine della fenice che la raffigura; un manipolo di eroici frati alla ricerca della memoria, per riportare in vita dal medioevo una ricetta originale persa nei cassetti impolverati del passato.
Passiamo alla cronaca: in un’intervista rilasciata lo scorso 7 maggio al quotidiano Het Nieuwsblad il vice priore dell’abbazia di Grimbergen, Karel Stautemas, racconta il continuo flusso di turisti e curiosi presso la struttura e la delusione nel non trovare un impianto di produzione. La tradizione brassicola dell’abbazia – perpetrata nei secoli sin dalla sua fondazione -, infatti, si interrompe all’epoca della Rivoluzione francese, quando i venti anticlericali di Parigi cacciano i frati dalla loro antica dimora. Soltanto nel 1958 il nome dell’abbazia e l’inconfondibile fenice – che con il motto latino Ardet nec consumatur simboleggia la caparbietà a cadere ma mai scomparire – ritornano su un’etichetta: i monaci stringono un accordo con il birrificio Maes e concedono alla compagnia – oggi Alken-Maes e parte della galassia Carlsberg (8 miliardi di euro i ricavi nel 2017) in comproprietà con un altro gigante, Heineken – la licenza a utilizzare il nome e la storia di Grimbergen per la produzione della birra.
Oggi, però, l’abbazia ha espresso l’intenzione di ritornare a produrre all’interno delle proprie mura (anche se in piccola scala) e ha affidato a quattro studiosi l’incarico di scandagliare l’intero patrimonio documentale custodito nelle biblioteche: 35mila tra vecchi tomi e pergamene, principalmente in antico fiammingo, dal quale estrarre l’antichissima ricetta originale della bevanda così come si faceva prima dell’arrivo dei perfidi sanculotti. Si ha già un’indicazione degli ingredienti, assicura il vice priore, ma rimane l’incertezza sull’esatta proporzione nel loro utilizzo. Niente paura: per il 2020, si augurano da Grimbergen, le prime bottiglie prodotte all’interno dell’abbazia saranno pronte ad affiancare la produzione industriale, sempre in mano a Alken-Maes.
Però, anche a scriverla così, la storia a me non torna. Questo improvviso interesse dei frati del Brabante a lanciarsi in un’attività altamente specializzata, perché “i visitatori non capiscono come mai non brassiamo”, non si discosta dagli entusiasmi di chi che senza preparazione apre l’ennesimo microbirrificio per poi scontrarsi contro l’imbuto di un mercato ancora asfittico, le barriere dei costi fissi e di produzione, la feroce concorrenza dei piccoli e dei giganti dell’industria. E allora, se non possono sapere nulla di come una ricetta si elabora, una cotta si esegue, un prodotto si vende, a chi si potranno mai rivolgere per consulenza e finanziamento i monaci norbertini se non ai propri soci di Heineken e Carlsberg? I quali, d’altronde, saranno ben lieti di mettere piede all’interno delle mura di un convento e fregiarsi in futuro di questa santa collaborazione: non per niente a Grimbergen è arrivato subito il placet dei due megabrewer, che continueranno dai loro impianti la produzione e distribuzione su larga scala delle linee ufficiali della fenice, tra le quali Blanche, Blonde, Dubbel e Tripel.
Anche la fola della ricerca della ricetta perduta, in un’atmosfera misteriosa da Il nome della rosa, pare seguire l’ondata scomposta dell’hype che troppo spesso si gonfia attorno al mondo della birra e cioè quella nebbia di fuffa nevrotica figlia di strategie di marketing con tanto di campagne aggressive, stereotipi fasulli sull’idealtipo del beer geek, bevande spumose, opache e astratte da gustare via Instagram.
Ben vengano i tentativi di abbozzare un’archeologia dei gusti degli antichi bevitori, ma ha senso oggi – dopo le continue ibridazioni tra luppoli, i malti dalle potenziate attività enzimatiche frutto della ricerca, gli studi di microbiologia sui lieviti – riproporre le indicazioni di chi fermentava ancora prima delle definitive ricerche di Louis Pasteur? Lo stesso vice priore si mostra cauto e si domanda “Piacerà ancora quel tipo medievale di birra?”, ma nonostante le ricerche abbiano interessato solo metà dell’archivio è pronto a scommettere che in un anno e mezzo circa la birra del passato tornerà alla luce.
Rimane, infine, il retropensiero cattivo e cioè che (come in altre storie affascinanti all’apparenza) si tratti soltanto di un’impresa puramente commerciale. Magari l’ordine ha bisogno di fondi per attività di beneficenza o sono necessari lavori di ristrutturazione per sorreggere la fenice: nel 2011 furono ad esempio i frati dell’abbazia di Saint Sixtus (artefici della meravigliosa Westvleteren) a siglare un accordo con la catena dei supermercati Colruyt per coprire con una vendita eccezionale di 93mila bottiglie fuori dal loro complesso religioso le spese necessarie a portare a regola le vecchie strutture pericolanti. Ma è anche vero che solo pochi mesi fa gli stessi trappisti hanno severamente rimproverato il gruppo di distribuzione Jan Linders che senza la loro autorizzazione aveva messo in catalogo (a prezzo quasi triplicato) due tra le loro etichette considerate unanimemente tra le migliori birre al mondo.
Non resta altro che augurare la migliore fortuna ai norbertini della Grimbergen, auspicando che la loro fenice possa risorgere ancora dal fuoco di una rinnovata, improvvisa passione brassicola, e magari avvertendoli di fare attenzione a non allargare eccessivamente la famosa cruna dell’ago a furia di lasciar passare, tra una tripel e una blanche, anche i grassi cammelli della produzione industriale.